mercoledì 25 novembre 2009

I tanti processi per amianto.
Il caso Montefibre di Pallanza

Lo chiamano sostanza killer, perché provoca malattie come il mesotelioma che non lascia scampo, o patologie croniche polmonari senza soluzione, come l’asbestosi, che causa insufficienza respiratoria, affanno, tosse continua. Un assassino subdolo, perché le sue vittime non muoiono subito, ma anni dopo averlo “incontrato”. Ma soprattutto un omicida onnipresente. È l’amianto che, oltre a colpire chi con esso ha lavorato, come in Italia gli operai Eternit, contro i cui dirigenti inizierà il processo a Torino il 10 dicembre, ha provocato stragi in tante industrie sparse sul territorio, dove veniva utilizzato negli indumenti che avrebbero dovuto proteggere i lavoratori dagli infortuni o come isolante.

È il caso della Montefibre di Pallanza (Verbania), ex Rhodiatoce, dal 1972 di proprietà Montedison, contro i cui dirigenti è iniziato il 6 ottobre il “processo bis”, ora in fase di udienza preliminare al Tribunale di Verbania. Un processo per omicidio colposo e lesioni personali che coinvolge 15 ex lavoratori dell’azienda che produceva nylon e rayon, morti per mesotelioma, e 9 operai che hanno contratto malattie asbestocorrelate. Imputati 16 dirigenti, alcuni dei quali già erano stati coinvolti nel primo processo per la morte di 11 operai. In quel caso il primo grado celebrato a Verbania si era concluso nel 2007 con un’assoluzione per 14 dirigenti perché, pur riconoscendo l’esposizione alla sostanza killer che nello stabilimento di Pallanza era utilizzato per la coibentazione di tubature e l’isolamento di impianti, il Tribunale di Verbania dichiarava l’impossibilità di attribuire la responsabilità ai singoli imputati che negli anni si erano susseguiti ai vertici dell’azienda. Una sentenza per molti scandalosa, ribaltata in secondo grado il 25 marzo di quest’anno dalla Terza sezione penale della Corte d’Appello di Torino che ha condannato gli imputati a pene tra gli 11 e i 20 mesi di reclusione. Si è in attesa ora della sentenza della Cassazione.

Nel “processo bis” alcuni nomi degli imputati ritornano, come quelli dell’ex presidente dell’Eni Giorgio Mazzanti, di Mario Valeri Manera, del Banco Ambrosiano, e di Alberto Grandi, ex amministratore delegato Montedison ed ex vice-presidente di Montefibre, altri cambiano. "Nell’udienza preliminare – spiega Laura D’Amico, legale delle parti civili e della Cgil – il Gup ha ammesso i congiunti dei morti, i lesionati e i loro congiunti, Cgil e Cisl di Verbania, Medicina Democratica, il Comune di Verbania, ma non la Provincia e la Regione Piemonte e nemmeno l’Associazione Italiana Esposti Amianto. Il secondo processo si è reso necessario perché le morti purtroppo continuano e continueranno ancora in futuro". Una sostanza come l’amianto provoca proprio questo, stragi diluite nel tempo che, senza l’impegno delle associazioni, rimarrebbero silenziose. "Uno dei grandi problemi riguarda i medici, spesso poco sensibili a segnalare casi di malattie che potrebbero derivare dall’esposizione all’amianto". L’udienza preliminare si aggiornerà il 25 febbraio.

Ilaria Leccardi di Terra Comune del 25 novembre 2009

sabato 14 novembre 2009

Ricostruire processi e casi giudiziari in tema di amianto. Ci prova Casale Monferato

Casale Monferrato città della sofferenza e dell’impegno, ma anche città all’avanguardia per la “cura” dei siti contaminati (più di 28mila i metri cubi di materiale bonificato) e per lo studio dei rischi derivanti dall’esposizione all’amianto. Tanto che, quando la Regione Piemonte ha dato vita a fine 2008 al Centro regionale per la ricerca, la sorveglianza e la prevenzione dei rischi da amianto, ha scelto come sede proprio la città in provincia di Alessandria. Qui, all’interno del Centro, da quest’estate ha preso il via un progetto affidato a Stefano Zirulia, ricercatore dell’Università di Milano, che va oltre alla dimensione prettamente medica, per puntare allo studio della materia giuridica, una delle più spinose per la mancanza di coordinamento delle procure sul territorio e di banche dati.

Un problema sottolineato anche durante la conferenza nazionale sull'amianto, tenutasi a Torino dal 6 all'8 novembre, dal Procuratore Generale della Repubblica di Firenze, Beniamino Deidda, che di questi temi si occupa da oltre 40 anni: «Tra i maggiori ostacoli nella lotta contro le malattie professionali c’è la difficoltà di fare arrivare nelle aule di tribunale le denunce avanzate all’Inail. Pochi i magistrati competenti in materia e pochi i medici che segnalano alle procure i casi di mesoteliomi e malattie legate all’amianto. Ma soprattutto è difficile risalire ai processi pendenti e alle denunce per i casi di malattia professionale, visto che i capi di imputazione vengono classificati solo genericamente come omicidio colposo».

Casale ha provato a rispondere anche a questo problema. «Abbiamo già attivato un servizio di newsletter e rassegna stampa sul sito dell’Asl di Alessandria (www.aslal.it, ndr) - spiega Zirulia - ma l’obiettivo principale è creare una banca dati giuridica, di libero accesso online, che contenga la giurisprudenza penale, civile e previdenziale sugli effetti dell’amianto sulla salute. Facciamo un lavoro di ricerca, ma vista l’insufficienza di fonti come banche dati giuridiche e riviste di settore, stiamo soprattutto interpellando giuristi, avvocati e associazioni delle vittime attive in tutta Italia. Opereremo anche sui registri dei mesoteliomi, per incrociare informazioni mediche e i loro sbocchi giuridici. Scopriamo ogni giorno che c’è moltissimo sommerso, non quantificabile. La tre giorni di Torino ci ha dato la possibilità di entrare in contatto con realtà e associazioni diverse e l’idea per il futuro è anche quella di unire le forze per un coordinamento di livello nazionale».

venerdì 16 ottobre 2009

Il borgo che non c'è più

Gli ultimi ad averlo abitato ufficialmente furono degli immigrati albanesi. Ora di Brusaschetto Nuovo, un gruppo di case popolari nell'alessandrino abbuttute pochi mesi fa dalle ruspe, non è rimasto nulla. Ma non è morta la storia di chi vi ha vissuto

Quelli di Brusaschetto non l’hanno mai amato, si sono sempre rifiutati di andarci ad abitare. Un reticolo di strade squadrate, come una prigione a cielo aperto, alloggi da 60 metri quadrati, uno sopra l’altro, costruiti sotto la collina e a due passi dal Po. E dove li mettevano i covoni e gli attrezzi di campagna? In quei minuscoli ripostigli pronti per essere alluvionati?
Così quelle quindici palazzine, con chiesa annessa, nacquero già come corpo estraneo. Accanto alla strada, quasi non fossero di nessuno. Hanno vissuto la loro storia travagliata di emarginazione, sofferenza e anche morte, e ora che le hanno abbattute nessuno le rimpiange. Forse solo i clandestini, i cinghiali o i satanisti che sono stati i loro ultimi abitanti.
Brusaschetto Nuovo fu costruito alla fine degli anni Cinquanta perché il paese di sopra, in cima alla collina, stava franando a causa delle escavazioni intensive nella miniera, o meglio nella cava di marna da cemento, portate avanti da imprenditori come Buzzi e Cementi Victoria. In queste case sarebbero dovuti andare a vivere gli abitanti del vecchio paese, visto che le crepe nelle loro abitazioni si allargavano a vista d’occhio.
Ma così non è mai stato. Ci andò invece gente venuta da fuori per lavorare: gli operai della centrale nucleare di Trino Vercellese, proprio di fronte al di là del Po, e poi, negli anni Novanta, i migranti albanesi. Ma non era proprio l’America.
Quelle terre meritavano una nuova vita. Almeno, questo hanno pensato l’amministrazione di Camino, il comune di cui Brusaschetto è frazione, e il Parco del Po, che qui ne disegna i confini. Il 19 gennaio 2009 è iniziata la demolizione dell’intero borgo, con l’obiettivo di riqualificare l’area e includerla in un progetto di naturalizzazione entro il 2013.

Un paese di minatori
Le colline del Basso Monferrato nascondevano un tesoro. Un materiale povero, che avrebbe rappresentato però l’oro della modernizzazione architettonica del ventesimo secolo: la marna. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nella zona compresa tra Camino e Brusaschetto, un gruppo di lungimiranti imprenditori diede via all’attività estrattiva. E la vita cambiò, nelle forme del paesaggio e nel quotidiano della gente. I contadini divennero minatori, abbandonati campi e risaie si ritrovarono immersi nella rete di gallerie che anno dopo anno sempre di più penetrarono sotto la collina. E presto quasi tutte le famiglie di Brusaschetto si ritrovarono ad avere almeno un componente assunto nelle ditte estrattive, tra i rischi del grisou e un lavoro che logorava il fisico.
Ma non solo le nocche o la schiena, anche il corpo della collina mutava. Le sue sembianze si arricchivano di ponti e rotaie per il trasporto dei materiali, e l’intensità dell’estrazione la rendeva più vuota e più fragile.
Sulle case iniziarono a vedersi le crepe già negli anni Trenta, come rilevano gli studi del Servizio Geologico d’Italia. Talvolta sembrava arrivasse il terremoto, perché la terra vibrava. Invece erano piccole frane. La paura aumentava e il problema giunse fino a Roma, alle aule del Parlamento. Furono i deputati originari della zona a interessarsene, con interpellanze e richiesta al Ministero dei Lavori Pubblici. Prima Walter Audisio, comunista, poi Paolo Angelino, socialista, quindi Giuseppe Brusasca, democristiano e nato proprio a due passi, a Gabiano. Dal 1951 al 1957 fu un susseguirsi di sollecitazioni.
“Alcune case stanno crollando, altre sono lesionate” tuonava Walter Audisio in una seduta della Camera del 1° febbraio del 1956, citando le parole del parroco di Brusaschetto: “Alcune abitazioni sono già state evacuate e le vite sono in pericolo. Il campanile della chiesa è inclinato di 40 centimetri verso la canonica e la chiesa stessa. Ora siamo in ansiosa attesa, sperando, finalmente, comprensione ed umanità per un pronto, efficace e massiccio intervento governativo, prima che sia troppo tardi”. Rispondendo ad Angelino, il 28 febbraio di quello stesso anno, il sottosegretario di Stato per i Lavori pubblici Giuseppe Caron spiegava: “Dagli accertamenti è risultato che il dissesto statico è dovuto al cedimento di vecchie gallerie al di sotto e in prossimità dell’abitato, ricavate prima del 1927 per l’escavazione di marna di cemento. Al fine di dare alloggio alle famiglie che hanno avuto la casa danneggiata è stata disposta l’assegnazione all’Istituto Case Popolari di Alessandria di 100 milioni di lire per la costruzione di un primo lotto di alloggi”.
Questo fu l’inizio di Brusaschetto Nuovo. Ma passarono ancora due anni prima dell’avvio dei lavori, come testimonia l’allarme lanciato dall’onorevole Brusasca nell’ottobre del 1957: “Il Ministero ha fatto stanziamenti e disposto progetti per la costruzione di nuove case in un sito sicuro, ma le pratiche sono talmente lente che ci avviciniamo all’inverno e le opere sono ancora da eseguirsi”. Eppure, nonostante le richieste di aiuto dalla popolazione ripetute negli anni, la paura e l’incertezza che minavano la quotidianità, una volta terminati i lavori nel 1958 quelle case rimasero vuote.

La vita comunque
Alla fine degli anni Cinquanta le miniere chiusero. E il paese in cima alla collina poco a poco si spopolò. Dai quasi 800 abitanti del 1921 si passò ai 195 del 1961. Proprio l’anno in cui a Trino Vercellese, al di là del fiume, iniziarono i lavori per la costruzione della centrale nucleare “Enrico Fermi”. E un lampo di vita arrivò anche a Brusaschetto Nuovo. Nessun contadino si decise a scendere in basso, la gente venne da fuori. Gli operai della centrale abitarono le case popolari per alcuni anni. E successivamente qualcuno continuò a vivere in questo reticolato di abitazioni tutte uguali, gialle con il tetto rosso, con un’alta chiesa di mattoni a fianco. Lo testimoniano i numeri dei censimenti: 80 persone nel 1971, 88 nel 1981 e 54 nel 1991.
Di questi uomini e di queste donne non rimane però niente nella memoria popolare. È come se coloro che vivevano da generazioni sulla collina avessero rinnegato quell’asettico villaggio, costruito per soccorrerli dalla frana, ma considerato fin dal primo momento un corpo estraneo. Eppure, nonostante tutto, la vita c’era. Travagliata, come dappertutto, forse solo un po’ più difficile. Muri quasi di cartone, non un negozio né un parco per i bambini. Si parla anche di un fatto di sangue, un giallo all’inizio degli anni Ottanta. Il Po era così vicino che le alluvioni non davano tregua, quelle del 1994 e nel 2000 sono solo le più note.
Negli anni Novanta arrivarono gli albanesi, sfollati in questo borgo. Il ritmo delle emigrazioni segnò il tempo fino al 2000, quando il Comune decise di murare gli ingressi e le finestre degli stabili. Eppure il tanto denigrato paese continuava ad essere un desiderio, o forse riparo, per qualcuno. Poveri, disadattati e clandestini che nel tempo hanno sfondato i mattoni e occupato quegli spazi, lasciandosi alle spalle pure i segni di un incendio. E di notte, anche se nessuno ha mai potuto dare un nome agli autori, comparivano scritte sataniste e murales grotteschi con protagonisti la centrale e l’ambiente contaminato di questo territorio. Ma anche un grande disegno in stile western che si dipanava su due case adiacenti, e una serie di scritte ammonitrici: “Mai più così. Viva il Po” e “Noi siamo vivi”.

Le ceneri del borgo
Quello di Brusaschetto Nuovo stava iniziando a diventare un problema. Più che altro per il degrado, la desolazione e lo stato di abbandono di strade e case. Fu anche cintata come zona pericolante. Fino a quando, nel 2008, maturò la convinzione che l’unica strada percorribile fosse abbattere il complesso edilizio e ricominciare da capo. Attori della svolta, il Comune di Camino e il Parco Fluviale del Po tratto vercellese-alessandrino, promotori di un intervento di riqualificazione.
Il progetto è stato presentato alla popolazione durante un’assemblea molto partecipata la sera del 15 gennaio 2009. “È un traguardo che vedevamo molto lontano, finalmente ce l’abbiamo fatta”, ha introdotto soddisfatto il sindaco Sergio Guttero, quasi a fine mandato. “L’idea, ha aggiunto il presidente del Parco del Po Ettore Broveglio, è di riqualificare un’area utilizzando i proventi dell’attività estrattiva. Ripristinando la situazione ambientale di oltre cent’anni fa”. La concessione ha una durata di cinque anni a partire dal settembre 2008. “Progressivamente, ha concluso Nemesio Ala, consulente della ditta Nord Scavi incaricata della demolizione e della riqualificazione, costruiremo habitat, ecosistemi e particolari isole per la fauna. Insomma, un luogo da un lato bello, dall’altro ricco di vita e biodiversità”.
La mattina del 19 gennaio la neve copriva ancora i tetti delle case. La Giunta comunale e i politici della provincia si erano radunati al gran completo per assistere a quello che nella zona stava diventando un vero e proprio evento. Fascia tricolore, taglio del nastro e via alla ruspe. In pochi giorni Brusaschetto non ci sarebbe più stato: spazzato via dal paesaggio come già lo era stato dalla memoria degli abitanti. La prima casa e poi le altre. Mano a mano che i muri e le stanze venivano sventrati emergevano i dettagli di una vita recente. Una parete dipinta di verde, fotografi e, una copia di Topolino, poltrone, brandine, coperte, addirittura vestiti. Come a dire: fino all’ultimo la vita c’era. E, se ti spostavi vicino alla chiesa, potevi vedere al centro della navata un’inquietante sedia a rotelle forse utilizzata per qualche strano rito. Anch’essa spazzata via dalle ruspe.

La rinascita
Le case ora non ci sono più, le macerie nemmeno. Dove un tempo sorgeva Brusaschetto Nuovo si incomincia a vedere un laghetto. Ma gli scavi andranno avanti ancora per molto e l’ambiente si modificherà ulteriormente. I camion che trasportano via la terra proseguiranno il loro lavoro e qualche disagio turberà il quieto vivere degli abitanti, costretti ad usare una strada battuta vicina al fiume Po in vista della realizzazione di quella nuova ai piedi della collina. Era proprio questo che più li preoccupava durante l’assemblea di gennaio. “Ce la farete prima dell’inverno?” si domandavano.
“Il progetto interessa circa 40 ettari di golena, di cui solo una piccola parte era occupata dagli edifici. Per rendere l’idea, pari a 40 campi di calcio, il doppio della superficie complessiva del parco del castello di Camino”, spiega Maria Teresa Bergoglio, responsabile del settore edilizio e urbanistico del Parco. E anche i cinghiali vogliono la loro parte. Sono infatti previsti attraversamenti per la fauna selvatica, che negli ultimi anni si era ricavata la sua strada a due passi dalle case. “Al termine dell’intervento, conclude Bergoglio, il progetto prevede circa metà superficie dedicata a bosco e radura, l’altra parte suddivisa tra aree umide e specchi d’acqua con profondità massima di 3,5 metri sotto falda, poco meno della quota del fondo alveo del Po”.
Così, il volto del futuro sarà come quello del passato e i cinquant’anni di Brusaschetto Nuovo non saranno mai esistiti. Non per tutti. C’è chi ce li ha ancora negli occhi, nelle mattine di rugiada o nei pomeriggi assolati, magari al ritorno dal lavoro. Perché, incastrata tra i colli e il Po, c’era una zona grigia che era stata per anni la vita di qualcuno.

Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
Da PiemonteMese di ottobre

mercoledì 30 settembre 2009

Marlane, chiusa l'inchiesta della Procura di Paola: morti 40 operai a causa dei coloranti

Ne sono morti quaranta di cancro. Altri sessanta hanno lo stesso male e sono ancora vivi. Erano tutti operai, colleghi, per anni fianco a fianco nell'azienda tessile Marlane, in provincia di Cosenza, a Praia a Mare. La Procura di Paola ha concluso le indagini, durate anni, e ha ipotizzato i reati di omicidio colposo dei dipendenti, la cui morte è stata attribuita alle condizioni di lavoro, e inquinamento ambientale.

Sono stati anni difficili per i parenti delle vittime, difficili per gli ex operai che dopo anni di lavoro in fabbrica combattono contro tumori che hanno colpito la vescica, o i polmoni, l'utero o la mammella. Le fasi delle indagini sono, per il momento, concluse, si attende ora la decisione di rinvio a giudizio di una decina di indagati.

Ci sono voluti anni e anni di indagini, prima lungo un doppio percorso, poi riportate in un unico fascicolo, per dimostrare la connessione tra i decessi e l'uso di alcune sostanze usate nella fabbrica di coloranti azoici, che contengono "ammine aromatiche", indicate da una ampia letteratura scientifica come responsabili delle insorgenze tumorali.

Tre procedimenti - il primo iscritto nel '99, il secondo nel 2006 (con sette indagati) e il terzo nel 2007 (con quattro indagati) - che il Procuratore Capo Bruno Giordano ha fatto confluire in un unico fascicolo. Più di mille operai hanno lavorato nell'azienda fondata negli anni '50 dal conte Rivetti. Si producevano tessuti di vario tipo, per lo più divise militari. Fino alla metà degli anni Sessanta, nella Marlane esistevano dei muri divisori tra i reparti.

Poi l'azienda passò dal Lanificio Maratea, nel 1969, all'Eni - Lanerossi. In quell'anno i muri che dividevano i reparti furono abbattuti e così la fabbrica diventò un unico ambiente di lavoro: la tessitura e l'orditura, trasferite dal lanificio del vicino comune di Maratea, vennero inserite tra la filatura e la tintoria, senza alcuna divisione fisica. E così i fumi saturi di sostanze chimiche di coloritura, provenienti dalla tintoria si espandevano ovunque. Una nube permanente e densa sugli operai.

A chi lavorava su certe macchine, alla fine della giornata veniva donata una busta di latte per disintossicarsi. Era l'unica contromisura proposta, che evidentemente non poteva bastare. I coloranti - quelli che generalmente vengono contenuti nei bidoni con il simbolo del teschio - venivano buttati a mano dagli operai in vasche aperte, dove ribollivano riempiendo di fumi l'ambiente e le narici dei lavoratori.

Senza aspiratori funzionanti. Gli operai tossivano e i loro fazzoletti diventavano neri. E poi c'era l'amianto. L'azienda dice di non averlo usato, ma chi ha lavorato nello stabilimento sa bene che i telai avevano freni con le pastiglie d'amianto, che si consumavano spesso e dalle quali usciva polvere respirata da tutti.

Nel corso del 1987 il gruppo tessile Lanerossi - già appartenente al gruppo ENI, di cui faceva parte la Marlane di Praia a Mare - venne ceduto alla Marzotto di Valdagno, che ne detiene ancora la proprietà. Negli anni '90 la svolta: arrivarono le vasche a chiusura, dove i coloranti potevano ribollire senza riempire l'aria di vapori. Ma per molti operai fu troppo tardi, dopo decenni di inalazioni tossiche. Nel 96 la tintoria è stata chiusa. Oggi l'azienda è vuota. Dismessa.

"Le indagini sono praticamente chiuse - ha dichiarato il Procuratore Capo di Paola, Bruno Giordano - recentemente abbiamo richiesto un ultimo sequestro preventivo che il gip ha emesso relativo all'area circostante lo stabilimento e credo che sia stato l'ultimo passo istruttorio da parte nostra.

Ora aspettiamo solo di chiudere formalmente le indagini". La Procura di Paola ha infatti sequestrato il terreno circostante l'azienda: sotto, tonnellate di rifiuti industriali. Sostanze che erano nocive ancora prima di diventar rifiuti e che per questo avrebbero dovuto seguire l'iter di smaltimento secondo legge. Ma evidentemente qualcuno ha preferito seppellirli lì. Per questo, all'indagine iniziale sulle morti bianche se ne è aggiunta una seconda: non si indaga solo sulle modalità del ciclo di produzione ma anche sull'interramento dei rifiuti. Così oggi la fabbrica, chiusa da cinque anni, non è sotto sequestro ma i terreni circostanti sì.

Secondo la Procura, gli operai deceduti potrebbero essere più di ottanta: non tutte le famiglie dei deceduti infatti hanno sporto denuncia. Per questo il dottor Giordano ha costituito un gruppo di lavoro per individuare tutte le eventuali parti offese. Per molti operai, tuttavia, sarà dificilissimo avere giustizia: tanti sono i casi caduti in prescrizione. Con la legge Cirielli, infatti, solo i decessi a partire dagli anni '90 possono rientrare nella vicenda giudiziaria in corso.

Le prime morti risalgono agli inizi degli anni '70. Tra i primi, nel '73, due trentenni che lavoravano con gli acidi. E così via. Qualcuno sostiene che i morti siano un centinaio, ma secondo l'azienda sarebbero "solo" una cinquantina. Dato, questo, che rivelerebbe un rischio pari a un caso su un totale di 1058 operai, nell'arco di 40 anni. Motivo per cui l'azienda non vuole riconoscere il nesso di causalità tra le morti e le sostanze lavorate in fabbrica per decenni.

Non è dello stesso avviso il prete del paese, che ha celebrato più di ottanta funerali di operai. E non lo sono neanche le vedove, gli orfani di padri morti dopo una vita trascorsa in fabbrica. E poi c'è la storia di un operaio ammalato di cancro, Luigi Pacchiano, che ha trovato il coraggio di far causa alla Marlene - e che ha denunciato di aver ricevuto minacce per la sua azione legale - ma a cui poi l'Inail ha riconosciuto la malattia professionale ed ha ottenuto dal tribunale di Paola un risarcimento di 220 mila euro.

Ma le questioni sulla Marlene non finiscono qui. Ci si interroga sui finanziamenti dall'Unione europea e dalla Regione, sulle storie di precariato e cassa integrazione, sui sindacati e sui partiti e persino, come si può leggere nei rapporti del Ministero della Sanità, sul mare non balneabile di fronte alla fabbrica, nonostante ci fosse un depuratore.

di carlo Ciavoni e Anna Maria De Luca
da Repubblica

venerdì 25 settembre 2009

Paz sin fronteras

Che piaccia o no, il megaconcerto di domenica 20 settembre, nella Plaza de la Revolución all'Avana, è stato un vero successo: 15 interpreti assai popolari, fra cui il nostro Jovanotti, Silvio Rodríguez, Miguel Bosé, la portoricana Olga Tañón, Víctor Manuel, gli Orishas (il gruppo cubano che lavora all'estero e che da anni non tornava a casa), Amaury Pérez, X Alfonso, il grande Juan Formell con i suoi Van Van ed altri, hanno animato le cinque ore di musica, sotto un sole implacabile, riuniti intorno all'iniziativa del colombiano Juanes che vuole fare della musica un potente strumento di pace.

Quando Juanes ha organizzato un concerto alla frontiera fra Venezuela e Colombia, una frontiera bruciante e rischiosa, e l'ha chiamato "Paz sin fronteras", gli elogi per l'iniziativa si sono sprecati. Questa volta, invece, l'idea di scegliere la Plaza de la Revolución, un luogo assai simbolico per l'America Latina, con il mural del Che in fondo, ha suscitato scandalo, rabbia, una battaglia dei mass media davvero massiccia e senza esclusione di colpi.

I dischi di Juanes sono stati fracassati nella pubblica via a Miami, dove il cantante colombiano vive e dove sua moglie, in attesa del terzo figlio, ha dovuto sostenere il peso di un ostracismo così violento. Neanche la grande popolarità dell'autore di "Camisa negra" è riuscita a sedare gli animi dell'esilio cubano a Madrid, a New York e dovunque si sia stabilita una comunità di transfughi dall'isola. I motivi di una rabbia così sfrenata appaiono evidenti: il concerto di ieri, davanti a un milione e centocinquantamila spettatori che hanno sopportato con allegria l'implacabile sole del pomeriggio, è stato un grande successo per la musica, per la gestione intelligente dei cubani e del ministro della Cultura Abel Prieto, per l'affiatamento dei musicisti provenienti da diverse parti del mondo ispanico.

L'evento è stato trasmesso in diretta dalla catena di televisione Cuatro e anche se il servizio d'ordine -come sempre a Cuba nelle grandi manifestazioni di massa- è stato severo, tutto si è svolto nel migliore dei modi.

I quindici artisti hanno cantato gratis e gli organizzatori, Juanes in testa, si sono accollati le spese per gli impianti mentre Cuba offriva alloggi e organizzazione. E proprio per risparmiare qualcosa, il concerto si è svolto di giorno, all'implacabile luce del sole che però non ha scoraggiato un pubblico enorme. Un malevolo commentatore, su El País, ha intitolato che "la montagna ha partorito un topolino", affermando che il pubblico era costituito tutto da militanti e lavoratori intruppati nei camion e portati per forza. Davvero confortante pensare che all'Avana ci sia ancora un milione e passa di militanti!

Nella grande piazza dominava il colore bianco, bianco della pace, e tutti i ritmi della musica caraibica e, per chiudere il concerto, tutte e quindici le star del mondo ispanico hanno lasciato il posto alla voce calda, allegra, sfottente del grande Compay Segundo e del suo "Chan chan". Dall'oltre tomba, fumando il suo interminabile sigaro, quel vecchio adorabile se la sarà goduta.

di Alessandra Riccio,
da Latinoamerica

giovedì 17 settembre 2009

Gaza, l'Onu condanna
i "crimini di guerra" di Israele

“Gravi violazioni del diritto internazionale”, “attacchi deliberatamente sproporzionati e volti a punire, umiliare e terrorizzare la popolazione civile”, “crimini di guerra e contro l’umanità”.

Sono alcune delle espressioni usate dalla commissione di inchiesta dalle Nazioni Unite per descrivere quanto avvenuto nel corso della cosiddetta operazione “Piombo fuso”, l’offensiva militare condotta da Tel Aviv nel gennaio scorso.

L’indagine – durata cinque mesi e presentata ieri a New York dal presidente della commissione, il magistrato sudafricano Richard Goldstone – mette sul banco degli imputati Israele, responsabile di avere preso di mira “l’intero popolo di Gaza”.

Accuse anche per i miliziani palestinesi, che nel lanciare razzi contro lo Strato ebraico “non hanno fatto distinzioni fra gli obiettivi militari e la popolazione civile”.

Crimini “provati”
Stando al rapporto, nelle tre settimane di offensiva a Gaza (dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009) Israele ha fatto deliberatamente "un uso della forza sproporzionato".

La commissione Onu afferma di aver trovato delle prove che "indicano che Israele durante il conflitto a Gaza ha commesso gravi violazioni del diritto internazionale e della legislazione sui diritti umani".

Le operazioni militari israeliane, costate la vita a oltre 1400 palestinesi, "sono state pianificate con attenzione in tutte le loro fasi come attacchi deliberatamente sproporzionati e volti a punire, umiliare e terrorizzare la popolazione civile".

Di fatto Tel Aviv ha "commesso azioni equivalenti a crimini di guerra e – talvolta - a crimini contro l’umanità", che hanno preso di mira “l’intero popolo di Gaza”.

Nel documento Onu non manca una condanna per il lancio di razzi in territorio israeliano da parte dei militanti palestinesi.

Il rapporto spiega che “lanciando missili e sparando colpi di mortaio sul sud di Israele, i gruppi armati palestinesi non hanno fatto distinzioni fra gli obiettivi militari e la popolazione civile” e “senza un obiettivo militare, essi costituiscono un deliberato attacco contro la popolazione civile”.

Rapporto “di parte”
Sia Israele che Hamas hanno criticato duramente le conclusioni della commissione guidata da Goldstone. Con una nota ufficiale, lo Stato ebraico ha accusato il magistrato di avere “scritto un capitolo vergognoso nella storia del diritto internazionale e del diritto dei popoli sull'autodifesa”, limitandosi “a raccogliere testimonianze false o unilaterali contro Israele”.

Successivamente, il portavoce del ministero degli Esteri Yigal Palmor ha definito il rapporto “scandaloso, estremista e del tutto sganciato dalla realtà”.

Toni duri anche da parte del movimento islamico che controlla Gaza. Il dirigente del partito, Ismail Radwan, ha parlato di “un rapporto politico, parziale e disonesto, perché mette sullo stesso piano coloro che commettono crimini di guerra e coloro che resistono”.

A difendere il documento, tuttavia, ci ha pensato lo stesso Goldstone, che in una conferenza stampa ha respinto le accuse antisemitismo mossegli dagli ambienti ebraici più radicali e ha sottolineato invece la sua “indipendenza”.

L’affidabilità del rapporto Onu, del resto, è stata ribadita da più parti. Secondo Tim Franks, analista della Bbc e corrispondente da Gerusalemme, quello presentato ieri è il documento più approfondito sui fatti di Gaza (575 pagine basate su 188 interviste, oltre 10mila pagine di documenti e 1.200 fotografie) e gode della garanzia fornita dall’autorevolezza dello stesso Goldstone.

Corte internazionale e Consiglio di sicurezza
Il rapporto della commissione Onu adesso potrebbe finire sul tavolo della Corte penale internazionale (Cpi) e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nella conferenza di ieri Goldstone ha chiesto che il pubblico ministero del tribunale dell’Aja, l'argentino Luis Moreno-Ocampo, esamini il dossier “il più rapidamente possibile”.

L’organizzazioni per i diritti umani Amnesty International (Ai) ha sollecitato invece il coinvolgimento del massimo organo decisionale delle Nazioni Unite. “Il Consiglio per i diritti umani dovrebbe approvare questo rapporto e le sue raccomandazioni e chiedere al segretario generale dell'Onu di trasmetterlo al Consiglio di sicurezza”, ha detto Donatella Rovera, responsabile di Ai e autrice a sua volta di un'inchiesta sull'offensiva di Gaza.

di Carlo M. Miele
Osservatorio Iraq
(fonte: Bbc News, Ansa, Agence France Presse)

giovedì 10 settembre 2009

Zitti. Non recitate

A Chivasso il sindaco Bruno Matola (Pdl, ex An) censura l’anteprima nazionale dello spettacolo A Ferro e fuoco della compagnia Teatro a Canone diretta dal regista Simone Capula. Il lavoro è ispirato al libro di Stefania Podda Nome di Battaglia Mara. Vita e morte di Margherita Cagol il primo capo delle Br. Il Sindaco dopo aver concesso in un primo tempo l’uso del Teatro comunale l’ha revocato 6 giorni dalla prima.

Motivo? «La tutela della morale pubblica». Matola, senza mai aver visto lo spettacolo, fa riferimento a «espressioni che possano essere ritenute offensive della dignità e della morale pubblica e pertanto potenzialmente lesive dei sentimenti e degli interessi pubblici collettivi che questa Amministrazione è tenuta a tutelare». La stessa sensibilità, però, non l’aveva avuta nel caso di discutibili invitati di estrema destra o di serate sul fascismo. E qualcuno si chiede: l’Italia dovrebbre essere uno Stato di diritto, non uno «Stato etico»?

Scrivono Frediano Dutto e Piero Meaglia, del Centro di Documentazione Paolo Otelli di Chivasso: «E’ evidente la scorrettezza di una revoca così tardiva, e il danno economico e professionale che implica per la compagnia: ma non è su questo aspetto che vogliamo soffermarci qui. Ciò che indigna è la motivazione prodotta dal sindaco: lo spettacolo sarebbe offensivo “della dignità e della morale pubblica”, e “potenzialmente lesivo dei sentimenti e degli interessi pubblici collettivi”. Una censura di fatto, esplicita, neppure mascherata da un pretesto (quale potrebbe essere, ad esempio, un impedimento tecnico all’uso della struttura). Per tutelare non si sa bene quali sentimenti che il sindaco ritiene di incarnare, egli procura certamente un danno a noi tutti come cittadini mediante la lesione del nostro diritto costituzionale alla libertà di espressione del pensiero “con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (Articolo 21). Non vale la pena contestare qui punto per punto questa motivazione ridicola e pericolosa come questa destra di cui il sindaco è espressione. Possiamo solo aggiungere che lo spettacolo – pur affrontando un tema scabroso: la vicenda umana e politica della BR Mara Cagol – rappresenta un utile momento di riflessione critica, mai apologetica, sulla lotta armata e sul terrorismo che, ci piaccia o no, fanno parte della storia del nostro paese. Noi, che abbiamo visto le prove dello spettacolo, lo possiamo affermare serenamente. In ogni caso, per essere criticato, anche duramente, lo spettacolo avrebbe dovuto aver luogo. Voltaire avrebbe detto: “Non condivido nulla di quello che dici, ma mi batterò affinché tu possa farlo liberamente”. Voltaire viveva sotto una monarchia assoluta. Per i cittadini di una democrazia compiuta, questa lotta non dovrebbe più essere necessaria. Ma purtroppo non è così. Per queste ragioni, vi invitiamo a venire lo stesso, come se lo spettacolo avesse luogo, davanti al Teatrino civico alle 21 di questa sera, per riaffermare la volontà di difendere i nostri diritti costituzionali».

di Mauro Ravarino da r/umori fuori fuoco

Su Chavez la disinformazione italiana
un articolo di Gianni Minà

La riflessione più evidente che nasce dalla lettura dei media italiani dopo il trionfale passaggio a Venezia del presidente venezuelano Ugo Chavez, per la prima del film-documentario "South of the Border" a lui dedicato da Oliver Stone, è che da noi proprio non ne vogliono sapere di dire la verità su quello che sta accadendo nel mondo e perchè.

La nostra informazione, pateticamente impantanata nel suo stupido gioco di gossip, insulti e contro insulti locali, sembra ormai malata di autismo nelle sue certezze, anche quando queste certezze sono smentite dai fatti, come è accaduto nel recente crollo del muro del capitalismo.

Questa informazione è, infatti, così abituata ad essere bugiarda, superficiale, ridicola nel raccontare le persone e riferire i fatti che non sente nemmeno più il bisogno di chiedersi, per esempio, perchè il regista Oliver Stone, quello di Salvador, Platoon, JFK, Wall Street, cioè un regista aduso a dire la verità fuori dai denti e a riflettere sul mondo che lo circonda, abbia sentito il bisogno di raccontare l’America latina oggi, usando il meccanismo del documentario, incontrando i presidenti del continente a sud del Texas, da Ugo Chavez, appunto, al brasiliano Lula da Silva, all’argerntina Cristina Kirchner con suo marito Nestor (che l’ha preceduta nella presidenza), all’ecuadoriano Rafael Correa, al paraguaiano Fernando Lugo, al cubano Raul Castro, tutti in qualche modo protagonisti del vento di attenzione sociale e civile che sta cambiando e rendendo più giusta quella parte del mondo. Un vento che, secondo tutti gli indicatori internazionali, sta spingendo l’America latina verso un riscatto, storicamente atteso dal tempo delle conquiste coloniali di Spagna e Portogallo, e non gradito agli interessi delle nazioni del nord del mondo.

Oliver Stone compie questa traversata di un continente che sta recuperando diritti democratici, mentre in Europa si perdono ogni giorno brandelli di conquiste civili e sociali, inframezzando le incursioni nella vita di questi leaders a frammenti di telegiornali nordamericani che hanno il merito di sbriciolare la fama usurpata della tante volte esaltata capacità giornalistica dei media d’oltreoceano.

Non a caso proprio a Venezia, nella cena organizzata dalla produzione, dove c’era anche Chavez, Stone mi ha ribadito “Molti dei paesi latinoamericani che hanno recentemente conquistato un’indipendenza reale sono scorrettamente indicati da settori del nostro governo e da parte della stampa miserevolmente asservita come “non democratici”, perchè le loro nuove scelte economiche e politiche nuociono ai nostri interessi. Tutto questo è insopportabile e bisogna avere la froza di denunciarlo”.

Insomma, il regista di Nato il quattro luglio e di Assassini nati fa il lavoro che una volta facevano i giornalisti, i saggisti, e che, da qualche tempo, fanno i registi come lui, come Sean Penn, George Clooney, perfino come Soderbergh (nella rigorosa ricostruzione della vita e dell’epopea di Che Guevara, che smentisce tutte le invenzioni montate contro lui e contro Cuba), o come Michael Moore, l’iniziatore di questo genere, premiato da un pubblico che evidentemente vuole sfuggire le mistificazioni e le menzogne della televisione.

Non è quindi sorprendente che, salvo Il manifesto, i media italiani non abbiano sentito il bisogno di raccontare ai propri lettori il contenuto di South of the Border (A sud del confine), che sarebbe stato doveroso per aiutare il pubblico a capire, ma abbiano sguinzagliato, invece, presunti cronisti d’assalto alla ricerca del pettegolezzo, della battuta, insomma del niente.

Ero a Venezia, nel mio ruolo di giornalista e documentarista, eppure ne sono stato sfiorato io stesso. In caso contrario questi cacciatori di panzane avrebbero dovuto ricordare, per esempio, che i leaders progressisti latino americani, protagonisti del film di Stone e che sono sembrati tutti dialetticamente più preparati dei nostri saccenti politici, hanno potuto affermarsi democraticamente solo dall’inizio del nuovo secolo, in particolare dopo l’11 settembre 2001, quando gli Stati Uniti, distratti da due guerre inventante in Oriente, hanno perso di vista il “cortile di casa”. Prima avrebbero potuto far solo la fine di quei leaders democratici del continete, dal guatemalteco Arbenz al cileno Allende, eletti dal popolo e deposti da criminali giunte militari sostenute dai governi degli Stati Uniti.
Ma il nostro attuale giornalismo parolaio ha paura di confrontarsi con la storia e con la verità.

Così sceglie sempre la via del cabaret o della plateale mistificazione.
Il Giornale di Berlusconi aveva per esempio un sommario, nell’articolo di Michele Anselmi, che recitava:”Il feroce caudillo venezuelano, ospite del regista Oliver Stone, che lo celebra in un film e dimentica la ferocia del regime”. Una simile dizione che richiamava personaggi inquietanti sostenuti dall’occidente, come Bokassa o Idi Amin, o il dittatore haitiano Duvalier o i componenti della giunta militare argentina o cilena, responsabili, con l’appoggio degli Stati Uniti, della tragedia dei desaparecidos, è, infatti, fondata sul niente. Purtroppo per il giornalismo italiano, se fosse stato chiesto a chi ha costruito quella pagina se fosse in grado di enumerare anche solo un atto di ferocia del presidente venezuelano, non avrebbe saputo rispondere, perchè, oltretutto, Chavez , come sa chi fa un giornalismo onesto, è il protagonista di un percorso politico che lo ha visto prevalere dodici volte in altrettante consultazioni elettorali o referendarie negli ultimi undici anni. E’ un dato, questo, che per chiarezza dovrebbe tenere in conto anche una parte della sinistra italiana, prevenuta sulla politica del presidente venezuelano, malgrado i successi sociali che gli organismi internazionali gli riconoscono. Una volta Gad Lerner ha detto in tv “Chavez non ci piace”. Giudizio legittimo, che però suggerisce una domanda: il voto è forse uno strumento che vale solo quando vince il candidato che ci piace?

A controllare, recentemente, le elezioni in Venezuela c’era pure l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter con la sua Fondazione per i diritti umani. Non ebbe dubbi sulla correttezza della consultazione in corso.

A parte della nostra sinistra non piacciono nemmeno le frequentazioni di Chavez. A Venezia, per esempio, veniva, dopo un giro in Iran, in Siria e in Libia e l’indomani sarebbe andato in Bielorussia e Russia. “Faccio il presidente di un paese che è il quarto produttore modiale di petrolio - ha spiegato a me e a Tariq Ali, sceneggiatore di South of the Border, nella cena della produzione - Che faccio, ignoro questa realtà o tengo vive, periodicamente, le relazioni con le nazioni produttrici di petrolio e riunite nell’OPEC, che non a caso ha ripreso vitalità da quando il segretario generale è stato un venezuelano? Insomma, devo fare gli interessi del mio paese o quelli delle multinazionali degli Stati Uniti?”.

Non mi azzardo a chiedere che i giornalisti, ignari di quello che succede nel mondo, si addentrino su questi argomenti quando incrociano Chavez, ma mi aspetterei più correttezza almeno quando si affrontano problemi come quello dell’informazione in Venezuela.

Quando, nell’aprile del 2002, con l’appoggio del governo Bush e della Spagna di Aznar, l’oligarchia locale e perfino parte della Chiesa tentò il colpo di stato contro il suo governo democraticamente eletto, nelle ore drammatiche di quell’accadimento, le TV, per il 95% in mano all’imprenditoria privata, ostile a Chavez, incitavano all’eversione o, nel migliore dei casi, con nessun rispetto per i cittadini, trasmettevano cartoni animati.

Poi, nel tempo, le licenze di molte emittenti televisive e radiofoniche sono scadute e, come sarebbe successo negli Stati Uniti e ovunque, a quelle che incitavano all’eversione e all’assassinio del presidente, il permesso non è stato rinnovato.
Più recentemente è stata fatta una nuova legge che favorisce cooperative, gruppi di base e sociali. Essendo cittadino di un paese come l’Italia, sono prevenuto su ogni legge sulla televisione. So però una cosa: il 90% delle emittenti è rimasto, in Venezuela, in mano all’opposizione.

Non penso possa essere una legge più liberticida della nostra.

Gianni Minà da il manifesto

martedì 8 settembre 2009

Facciamo… "la festa" all’Amianto
giornata di studio a San Daniele Po

"Cittadini contro l’amianto", con il patrocinio del Comune di San Daniele Po e la collaborazione del circolo Rive Gauche, del gruppo ecologico El Muroon e dell’associazione SU LA TESTA-L’altra Lombardia, organizza per il 13 settembre una giornata di convegni e dibattiti contro le megadiscariche di amianto in provincia di Cremona e ovunque, e per l’utilizzo di metodi alternativi all'interramento in discarica dei rifiuti contenenti amianto.

ECCO IL PROGRAMMA DELLA GIORNATA
CONVEGNO "Smaltimento amianto: discariche o inertizzazione?"
Presso sala G. Tortini
10.00 Apertura dei lavori:
dott. Davide Persico - sindaco di San Daniele Po;
d.ssa Mariella Megna - Cittadini contro l’amianto;
10.30 "Stato dell'arte sui metodi alternativi all'interramento in discarica dei rifiuti contenenti amianto" prof. Alessandro Gualtieri – Università di Modena e Reggio Emilia;
11.30 Coffee break;
11.45 Dibattito;
13.00 Pranzo presso il Parco comunale della Mela Verde
14.30 Incontro dei comitati contro le megadiscariche di amianto che si sono formati in varie parti d’Italia, dal Veneto alla Sicilia.
16.30 Apertura tavola rotonda sul tema dello smaltimento dell’amianto.
Coordina Giampaolo Dusi consigliere provinciale del PRC e Giorgio Riboldi, associazione SU LA TESTA–L’altra Lombardia. Sono invitati istituzioni locali e provinciali, partiti, associazioni, sindacati e movimenti.
18.00 Conclusione dei lavori

A seguire proiezione del video "Anno 2018: verrà la morte. L ’amianto in corpo. Tutti lo sapevano. Tranne loro: i lavoratori" di Giuliano Bugani

Musica con canti popolari di Marco Chiavistrelli
"L'UNICA FIBRA DI AMIANTO INNOCUA E' QUELLA CHE NOI NON RESPIRIAMO"

Cittadini contro l'amianto della provincia di Cremona
per informazioni scrivere a nodiscaricadiamianto@yahoo.it o telefonare a: 3355328761-3389875898
visita il blog: cittadinicontroamianto.blogspot.com

venerdì 28 agosto 2009

E Ada filava...

Donne e lavoro era la traccia su cui dovevamo lavorare. Ada, un'operaia tessile, è la storia che abbiamo raccontato.

Ada, nel 1997 - dopo 25 anni di lavoro - viene licenziata. Ma non si arrende e cerca una nuova strada. Siamo a Biella, il maggior distretto tessile italiano, una città che ha costruito la propria identità attorno ai lanifici e alle grandi architetture industriali. Un settore in cui le protagoniste sono state donne all'avanguardia nelle lotte per l'uguaglianza sociale ma che oggi sconta il peso della crisi e della globalizzazione.

Questo è il documentario mio, di Mauro Ravarino, Silvia Mattaliano e Claudia Luise. Si chiama E Ada filava..., ha un anno e spera di non aver perso lo smalto.







«C'è lo spaesamento ma anche la voglia di non mollare. Di trovare una strada. C'è un territorio che attraversa una crisi e la vive nei suoi simboli. C'è il tessile e tutto un contesto che ruota attorno, ma c'è soprattutto la storia di una persona con le sue emozioni, i dubbi e i desideri, che meglio di ogni altra cosa raccontano una realtà sociale»

E Ada filava... (2008, 22'): un documentario di Ilaria Leccardi, Claudia Luise, Silvia Mattaliano e Mauro Ravarino. In poche parole, l'Isola Rossa.

lunedì 17 agosto 2009

Gli operai della Zanon hanno scritto la storia: dopo 9 anni di lotta sono padroni della fabbrica

Nella notte di mercoledì la legislatura di Neuquén ha approvato l'espropriazione definitiva che permette il trasferimento della Caramica Zanon alla cooperativa operaia FaSinPat (Fabrica Sin Patrones - Fabbrica Senza Padroni). Il governo provinciale si farà carico di pagare una percentuale dei debiti e il resto sarà condonato. La risoluzione è stata appoggiata da un'ampia maggioranza. I ceramisti hanno scritto così una nuova pagina di storia del movimento operaio.

Sembrava che la forza del vento che mercoledì soffiava a più di 60 chilometri all'ora a Neuquén fosse un augurio di quello che stava per avvenire: 26 deputati hanno appoggiato l'espropriazione definitiva e hanno suggellato la dichiarazione di utilità pubblica della fabbrica, con conseguente passaggio della Ceramica Zanon alla cooperativa Fasinpat.

"E' qualcosa di impressionante, siamo felici, l'espropriazione è un atto di giustizia. Non ci dimentichiamo della gente che ci ha appoggiato nei momenti più duri, né le 100.000 firme che hanno appoggiato il nostro progetto", ha detto emozionato Alejandro Lopez, segretario generale del Sindacato Ceramista di Neuquén (Soecn) e direzione politica della Zanon.

Da quando la Ceramica Zanon è nelle mani dei lavoratori, 470 famiglie vivono direttamente del lavoro che produce la fabbrica e si stima che l'attività generi 5.000 posti di lavoro indiretto. La lotta emblematica dei lavoratori e il grande appoggio della comunità locale hanno fatto sì che il potere provinciale riconoscesse come legittimo il valore sociale e produttivo che la gestione operaia ha promosso dal 2002, da quando amministra la fabbrica, senza capi, senza gerenti, senza padroni, solo loro... gli operai.

Bisogna ricordare il verdetto emesso dalla giustizia nel 2001: lock out padronale e imputazione di evasione aggravata per la direzione della fabbrica.

Il giorno tanto atteso è cominciato alle 4 del pomeriggio con un concentramento al monumento San Martin di Neuquén con le Madri di Plaza de Mayo, la vedova Fuentealba, Sandra Rodriguez, i dirigenti di Aten, Ate, Sejun, gli avvocati del Ceprodh, i rappresentanti della Federazione Mapuche, e tantissime organizzazioni sociali, politiche e di diritti umani, come militanti sociali, famiglie e simpatizzanti. In tutto circa 5.000 persone. C'erano anche i colleghi della Ceramica Stefani e Ceramica Del Sud. I lavoratori della Ceramica Neuquén hanno fatto uno sciopero per accompagnare la marcia. Da Buenos Aires sono arrivati i lavoratori dell'Indec e di altre fabbriche recuperate. Dal Brasile si sono uniti sindacalisti e l'Università di San Paolo.

Una volta riuniti, i manifestanti si sono diretti verso il palazzo governativo, dietro la bandiera di Carlos Fuentealba. E hanno percorso venti isolati con canti, tamburi ed emozioni.

Nove anni di lotta affinché venisse riconosciuta l'utilità della Ceramica Zanon. Lotta che ha creato un forte rapporto con la comunità locale, nazionale e internazionale, dal novembre 2001, quando Luis Zanon licenziò senza preavviso 380 operai ceramisti.

Mercoledì gli operai hanno montato un palco con microfoni fuori dal palazzo della legislatura, affinché i presenti potessero ascoltare passo dopo passo lo sviluppo della sessione legislativa, cominciata appena dopo le 6 del pomeriggio e finita circa a mezzanotte.

"E' il miglior riflesso della lotta organizzata che ha saputo conquisatare l'appoggio di tutta la società", ha detto Veronica Huilipan, della Conferazione Mapuche. "Un fatto storico e un passo importantissimo della lotta dei lavoratori", lo hanno definito gli studenti del gruppo No pasarán ed En Clave Roja. "Molti di noi hanno cominciato il proprio cammino politico con la lotta per l'espropriazione della Zanon e questo dimostra che tutti questi sforzi hanno smesso di essere una possibilità per divenire una realtà", hanno continuato gli studenti.

Il dibattito è proseguito senza sorprese. L'espropriazione è stata appoggiata da un'ampia maggioranza. Il martedì precedente era stato fatto un passo importante, quando la Commissione di Affari e Finanza ha approvato il documento per maggioranza. Cinquanta operai hanno presenziato alla sessione mentre le altre centinaia ascoltavano le argomentazione dei deputati da fuori, assieme agli altri manifestanti.

José Russo, presidente del gruppo del Movimento Popolare di Neuquén (MPN), principale promotore della proposta, assieme al ministro Jorge Tobares e alla deputata di Alternativa Soledad Martinez, ha sostenuto: "E' un fatto miracoloso. In queste decisioni si giocano il lavoro e la vita di molte persone, non di fabbriche, che con il proprio sforzo hanno fatto sopravvivere lo spirito del lavoro. Lo sforzo deve essere ricompensato. I ceramisti hanno lavorato 8 anni nell'insicurezza e noi dobbiamo appoggiarli per generare il futuro".

Al termine della votazione i lavoratori si sono abbracciati in un unico grido di soddisfazione. Quindi urla, sorrisi, brindisi. Fuori gli operai aspettavano i compagni, per ricodare e festeggiare nove anni di lavoro produttivo, politico e solidale, riconosciuti finalmente in forma giuridica della politica locale.

Il progetto di legge parla di una "decisione ferma dello Stato Provinciale, quella di accompagnare i lavoratori nella loro lotta, proponendo l'espropriazione della fabbrica e la cessione alla cooperativa in modo che continui la gestione operaia".

Gli operai potranno vendere anche il marchio commerciale, cosa che finora non gli era permessa. L'espropriazione si effettua con previo accordo dei creditori privilegiati, con il consenso della Banca Mondiale, della Sacmi, l'impresa italiana che fornisce i ricambi dei macchinari, e dell'Istituto Autarchico di Sviluppo Produttivo, organismo dipendente dalla provincia.

L'esecutivo provinciale dovrà solo pagare, come indennizzo, un valore superiore a 23 milione di pesos prima di cederla formalmente agli operai (un valore molto inferiore al credito reale). Il progetto di legge era stato presentato all'Esecutivo Provinciale a maggio, dopo lunghi dibattiti e modifiche affinché venisse approvato dagli operai.

L'obiettivo iniziale dei lavoratori era ottenere l'espropriazione e la statalizzazione sotto controllo operaio con un piano di opere pubbliche, ma l'iniziativa ufficiale ha dovuto lasciare da parte la statalizzazione e portare avanti l'espropriazione con un indennizzo ridotto ai creditori privilegiati del fallimento. Ciononostante, la risoluzione legislativa è un grande precedente per il resto delle fabbriche e imprese gestite da lavoratori in tutto il paese.

"Questo è per i 30mila compagni desaparecidos, per le madri di Plaza de Mayo, per il compagno Boquita, per Carlos Fuentealba, e per Kosteky e Ssntillan", ha detto Alejandro Lopez, emozionato, alla fine della sessione. Però, continua Lopez "l'espropriazione risolve la parte legale. La continuità lavorativa richiede altre decisioni politiche" rispetto ai contributi che le fabbriche "sotto padrone" ricevono dello Stato. "Hanno sussidi per la luce e il gas, ma anche per i salari, che noi non abbiamo".

libera traduzione da Anred

per maggiori informazioni www.obrerosdezanon.com.ar

mercoledì 12 agosto 2009

Giù le mani dalle officine
gli operai della Innse hanno vinto

Giù le mani dalla INNSE! Che questo grido di battaglia degli operai delle Officine di Bellinzona e della INNSE di Milano diventi la parola d’ordine di tutti gli operai e lavoratori!

È stata in prima pagina, ne parlano tutti i telegiornali, tutta l’Italia ha visto la foto con i quattro operai INNSE sul carro ponte della loro fabbrica, tuta blu, casco giallo e muso duro. “Il simbolo della crisi”, ha scritto qualcuno. Ma quale crisi? Quella economica che tutti credono che sarà passata fra un anno o due? O piuttosto la crisi di un sistema economico che ormai è fallito. Un sistema economico e sociale basato sullo sfruttamento del lavoro salariato. Un sistema che permette la produzione soltanto fino a quando aumenta il capitale.

La INNSE ha svelato la causa dell’attuale crisi con tutte le assurdità di un sistema economico destruttivo: una fabbrica con una maestranza qualificata e specializzata va chiusa per il semplice motivo che il capitale del suo padrone aumenta di più con la demolizione delle macchine che con la produzione. La legge dello Stato borghese, garantendo la proprietà privata, permette al proprietario la rottamazione delle macchine, con la conseguenza assurda che lo Stato protegge con le forze dell’ordine la distruzione della base economica dei suoi cittadini. Lo Stato dei padroni, quindi, non garantisce soltanto, come una volta, lo sfruttamento del lavoro salariato, ma persino la demolizione dei mezzi di produzione dei salariati. Ecco perché è fallito il sistema economico basato sullo sfruttamento del lavoro salariato: una volta, quando gli operai scioperavano, l’esercito proteggeva i crumiri per imporre la continuità della produzione, mentre oggi alla INNSE, un esercito di polizia impone la fine della produzione che è stata portata avanti dagli operai senza padrone e contro la sua volontà.

Ma ce n’è di più. La INNSE ha anche svelato, per chi l’avesse dimenticato, che lo Stato non protegge i suoi cittadini, ma soprattutto la proprietà privata, cioè il capitale. Questo non è niente di nuovo, la novità consiste nel fatto che la classe padronale, pur avendo perso ogni interesse alla produzione industriale, usa le Istituzioni statali per la spartizione tra di loro della ricchezza prodotta in passato. Se non fosse così, come si spiega il fatto che un patrimonio industriale come la INNSE è stato svenduto per un prezzo simbolico di 700'000 Euro ad un rottamaio speculatore come Genta? Un rottamaio che ora rivendica il suo diritto da proprietario per realizzare il lucro, smantellando e vendendo i macchinari pezzo per pezzo. Dapprima, lo Stato ha organizzato la svendita della INNSE, adesso garantisce con le forze dell’ordine il suo smantellamento, garantendo la proprietà privata e impedendo la continuazione di una produzione. Piuttosto che permettere a 50 famiglie di guadagnarsi il pane tramite questa produzione, lo Stato dei padroni li costringe a vivere delle elemonsini chiamati “ammortizzatori sociali”.

Quando una classe dominante non permette più a un numero crescente della società a nutrirsi da solo, è giunto il momento di rovesciarla. I quattro operai della INNSE sul carro ponte non sono tanto “il simbolo della crisi”, ma piuttosto il simbolo del suo superamento. Poiché, questi operai dimostrano che si può lottare, che la crisi non è un destino da sopportare come un fenomeno naturale, ma invece il risultato di un sistema economico che va superato. La INNSE è l’esempio come va affrontata la crisi: invece di subire passivamente ulteriori tagli di salario, aumenti dei ritmi e degli orari di lavoro, licenziamenti e chiusure di fabbriche, gli operai devono diventare i protagonisti del proprio destino. Gli operai della INNSE hanno portato la prova che è possibile ribellarsi anche essendo in pochi. 50 operai che sfidano la prepotenza padronale e statale trasformatasi in impotenza, quando i quattro, eludendo un assedio permanente di 500 sbirri, hanno conquistato il carro ponte della loro fabbrica.

Guardando la foto dei quattro operai INNSE, tanti altri operai che si chiederanno: Perché loro si ribellano e noi no? Perché lasciarsi portare al macello come dei buoi senza almeno aver tentato di lottare? Perché non facciamo anche noi come gli operai della INNSE? Da quando c’è l’assedio militare alla INNSE, si sono verificati almeno altri tre esempi di ribellione operaia: invece di andare in ferie, gli operai della Ercole Marelli a Sesto San Giovanni hanno occupato la fabbrica, un altro presidio di fabbrica c’è alla Manuli di Ascoli Piceno nelle Marche. «Siamo l´INNSE della Toscana» dicono gli operai della Bulleri Brevetti di Cascina che hanno bloccato la fabbrica con un presidio permanente davanti ai cancelli. Comunque finisca la lotta alla INNSE, o con la ripresa produttiva o con la chiusura definitva imposta dalla repressione statale, una cosa è certa: è valsa la pena di resistere tanti mesi, e di passare tanti giorni e tante notti in cima di una gru, perché questa lotta ha il potenziale per diventare il principio di una lotta operaia che si estende sempre di più, diventando finalmente una lotta di classe contro classe per rovesciare questo sistema corrotto e marcio fino alle ossa. Giù le mani dalle Officine! Giù le mani dalla INNSE! Che questo grido di battaglia degli operai delle Officine di Bellinzona e della INNSE diventi la parola d’ordine di tutti gli operai e lavoratori!

lunedì 10 agosto 2009

Zanon, momenti cruciali
Mercoledì si decide sull'espropriazione

E' la settimana decisiva. Quella in cui si avrà una decisione finale sulla situazione legale della Zanon. Dopo 9 anni di gestione operaia che si è affermata a livello internazionale per il suo impegno solidale e il suo legame con la comunità, gli operai potranno cominciare una nuova tappa se il progetto di legge di espropriazione definitiva sarà approvato dalla legislatura provinciale. L'impegno politico c'è, ora bisogna portarlo a termine.

Domani, martedì 11 agosto, la Commissione dei Bilanci dovrà emettere un documento e mercoledì in serata i deputati dibatteranno voteranno in merito all'espropriazione della fabbrica, affinché continui a lavorare sotto controllo degli operai e al servizio della comunità.

Da più di un mese i ceramisti stanno lottando per ottenere i pareri favorevoli delle commissioni che devono approvare il progetto di legge nella legislatura: la Commissione A degli Affari Costituzionali e la Commissione B dei Bilanci.

In merito alla bozza del progetto, hanno diffuso un comunicato stampa: "Non è stato un lavoro facile. Anche se il governatore Sapag, dall'inizio del suo incarico, ha detto che avrebbe risolto il problema degli operai della Zanon, nel corso dell'ultimo anno ha pensato diverse varianti, come l'acquisto della fabbrica e l'acquisto dei creditori privilegiati. A entrambi ci siamo opposti perché avrebbe voluto dire spendere milioni di soldi del popolo a favore della famiglia Zanon e dei suoi creditori, attori principali dello svuotamento della fabbrica. Siamo riusciti a stabilire che l'espropriazione sia la strada per risolvere il problema legale della Zanon sotto controllo operaio. Ma hanno rifiutato di discutere il nostro progetto di legge di espropriazione e statalizzazione senza pagamento e sotto controllo operaio".

Dopo passi avanti e indietro, il potere esecutivo insieme a diversi gruppi di deputati, l'anno passato ha elaborato un progetto di espropriazione che contempla l'accordo con i creditori privilegiati del fallimento, tra cui Sacmi, il Banco Mondiale e l'Istituto Autarchico di Sviluppo Produttivo (Iadep), organismo dipendente della provincia di Neuquén.

Attualmente, la Commissione degli Affari Costituzionale ha dato il suo appoggio e il 4 agosto la Commissione dei Bilanci ha discusso il progetto di legge alla presenza di una delegazione di operai. Da quanto hanno riportato questi ultimi, "si sono presentati anche membri delle camere imprenditoriali e il segretario generale del sindacato Cgt, guidati da Edgardo Phielipp, ex funzionario dell'Università del Comahue durante la dittatura militare, attuale vicepresidente di Acipan, e da Sergio Rodriguez, segretario generale della Cgt regionale, che nel 2002, quando dirigeva il Sindacato del Commercio di Neuquén, ha organizzato delle ronde per attaccare la gestione operaia che stava iniziando. Questi settori erano presenti con un solo obiettivo: tentare di bloccare la discussione del progetto di legge e togliere credito alla nostra lotta che dura da quasi 9 anni".

Il Comitato di Consenso è formato dal governo provinciale, dalle camere di imprenditori e dalla Cgt, "la cui unica funzione è zittire i reclami dei lavoratori parlando di pace sociale, ma sollecitando metodi repressivi quando diventa necessario. Il suo obiettivo finale è difendere gli interessi dei padroni e far sì che i lavoratori paghino per una crisi economica internazionale che non hanno generato", hanno aggiunto gli operai. "In questo contesto stiamo portando avanti una delle battaglie più dure, per ottenere le approvazioni delle commissioni A e B, condizioni fondamentali affinché il progetto di legge di espropriazione della fabbrica venga discusso nella sessione speciale del 12 agosto".

I lavoratori della Zanon, assieme al Sindacato Ceramista di Neuquén, hanno convocato i lavoratori di tutto il paese, i sindacati, le organizzazioni di diritti umani, le organizzazioni studentesche e politiche, e il popolo intero, a manifestare mercoledì 12 agosto fino alla Legislatura Provinciale. "Per fare un passo fondamentale verso l'espropriazione della Zanon, affinché la fabbrica rimanga definitivamente nelle mani dei lavoratori e del popolo. Sarà una giornata storica. Una giornata di lotta e mobilitazione, gli strumenti con cui riusciamo a conquistare tutti i nostri diritti".

per maggiori informazioni www.obrerosdezanon.com.ar

da Anred

mercoledì 29 luglio 2009

Strage della Umbria Olii
Lettera di una sorella

Sono Lorena Coletti sorella di una delle vittime della strage della Umbria Olii. Il 25 novembre 2006 quattro uomini si alzarono e partirono per andare al lavoro per guadagnarsi da vivere. Era di sabato, il lavoro lo avevano iniziato il martedì, dovevano installare delle passarelle sopra a dei silos. In quei silos c'era gas Esano, gas molto infiammabile, questo poiché nessuno aveva fatto una bonifica di questi silos. Verso le 13 di quel maledetto giorno un'enorme esplosione avvenì. Venni a sapere della notizia solamente la sera molto tardi. La moglie che lo aspettava per il pranzo non vedendolo tornare fece ungiro di telefonate verso i suoi colleghi, ma fu un vano tentativo, perchè non ottenne nessuna risposta. Fino a che non telefonò alla moglie del datore di lavoro che gli diedela notizia.

Giuseppe Coletti mio fratello, Maurizio Manili datore di lavoro, Vladimir Thode e Tullio Mottini erano morti nell'espolsione. Unico sopravvissuto Dimiri Claudio. Il proprietario della Umbria Olii fu indagato e rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio plurimo con l' aggravante della colpa cosciente e della previsione dell'evento. Secondo l'accusa Del Papa avrebbe dovuto avvertire i lavoratori della ditta Manili, della pericolosità delle sostanze contenute nei serbatoi dove non era mai stata fatta la bonifica. Un'omissione che sarebbe secondo i giudici e i periti dell'accusa, alla base dell'incidente causato dall'utilizzo di una fiamma ossidrica per terminare i lavori sulla superficie metallica dei silos.

Il 24 novembre prossimo doveva iniziare il processo penale, ma Giorgio Del Papa e la sua difesa impugnano il tutto facendo ricorso in Cassazione. Oggi apprendo la notizia dal mio avvocato che la cassazione decide a ottobre sul rinvio a giudizio penale. Ma per la seconda volta viene alla mia famiglia fatta un'altra richiesta di risarcimento. Sono passati quasi tre anni, e l'anno scorso ci fu la prima richiesta: di oltre 35 milioni di euro. Ora mi chiedo se anche quest'anno la cifra sia sempre quella oppure, sehanno messo a conto anche gli interessi, visto il tempo che è passato. Sottolineo che a mio fratello Giuseppe Coletti è stata stroncata la vita, e a Giorgio Del Papa non è stato neanche dato un giorno di carcere e tanto meno di arresti domiciliari.

Questa è la giustizia Italiana! In tre anni mio fratello è stato ucciso diverse volte, ora dico basta. Degli operai che partono la mattina per fare il loro dovere, per mantenere la famiglia e fare una vita onesta e dignitosa, non meritano di morire. Come non meritano che la loro dignità venga calpestata da assurde richieste di risarcimento, mandate da chi li ha uccisi. Non lo permetto. Mi chiedo come un uomo se si può chiamare uomo, abbia il coraggio di alzarsi la mattina e di specchiarsi con quattro morti che pendono soprala sua testa. E' una cosa che mi fa venire i brividi solo a pensarci, mi chiedo se ha un cuore o al suo posto una pietra. Vorrei che lui sapesse che la vita di quattro persone vale molto più' diqualsiasi cifra che lui chiede. Ma il peggio di tutto è che è ancora libero e che lo stato Italiano gli permette di fare queste cose.

Chiedo inoltre di poter incontrare il Presidente della Repubblica per poter parlare personalmente con lui. Io non mi arrenderò e non permetterò più che la memoria di mio fratello e delle altre vittime venga calpestata, sono esseri umani morti per lavorare, non per divertimento. Finché avrò vita li difenderò; di sicuro non mi limiterò a fare fiaccolate, ma cercherò di fermare chi ancora una volta vuole calpestare i lavoratori di Italia. Basta prendersela con Giuseppe Coletti e le altre vittime della Umbria Olii.

Lorena Coletti

martedì 28 luglio 2009

Eternit, strage a processo



A Torino il 22 luglio si è chiusa l'udienza preliminare del processo Eternit. Il gup Cristina Palmesino ha deciso per il rinvio a giudizio dei due imputati: il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Jean Louis De Cartier De Marchienne, proprietari in epoche diverse dell'industria di lavorazione d'amianto. Grande soddisfazione per i familiari delle vittime che dopo anni di lotta vedono aprirsi le porte del processo. La prima udienza è fissata per il 10 dicembre 2009.

Il video è realizzato dalla redazione torinese di PandoraTv
Angelo Artuffo, Ilaria Leccardi, Mauro Ravarino

domenica 26 luglio 2009

Amianto, nuove indagini a Torino

Malattie da amianto nel mirino di Raffaele Guariniello. Il magistrato torinese, che in settimana ha ottenuto il rinvio a giudizio dei vertici della Eternit per le migliaia di lavoratori vittime dell'asbesto, sta indagando anche sulla morte sospetta di 27 insegnanti.

L'amianto, fino a pochi anni fa molto utilizzato nella costruzione degli edifici scolastici, potrebbe infatti essere la causa scatenante del mesotelioma della pleura che li ha uccisi. Per il momento si tratta soltanto di un'ipotesi investigativa, supportata però dai dati raccolti dall'osservatorio torinese dei tumori professionali. Una struttura all'avanguardia, creata dallo stesso Guariniello all'inizio degli anni Novanta, dove vengono analizzati i tumori riscontrati in tutto il Piemonte.

Osservando gli ultimi dati, grazie all'ausilio dei propri consulenti, Guariniello si è accorto che negli ultimi 6-7 anni ben 27 insegnanti sono morti di asbesto, la stessa malattia per cui i vertici Eternit dovranno rispondere dei reati di disastro doloso e rimozione volontaria di cautele contro gli infortuni. Coincidenza o altro? "E' presto per rispondere", fa sapere Guariniello, che ha chiesto all'osservatorio di approfondire la conoscenza dei 27 casi.

lancio di agenzia Ansa del 25 luglio 2009

venerdì 24 luglio 2009

Il processo all'Eternit si farà


TORINO - Quando il gup Cristina Palmesino legge l'ordinanza di rinvio a giudizio per i due imputati dell'inchiesta Eternit, un applauso e un abbraccio sciolgono tutta la tensione accumulata in questi mesi d'attesa. Dovremmo dire anni - almeno trenta - di aspettative, lotte, dolore e speranza per la gente di Casale Monferrato, che ha patito questa tragedia. Almeno 1400 i morti nella cittadina piemontese. A cui si aggiungono i casi di Cavagnolo nel torinese, Ruviera in Emilia e Bagnoli in Campania. Una lunga catena di morti e malati: sono 3 mila in tutto quelli conteggiati nel capo d'accusa.

Il processo ai vertici Eternit si farà e inizierà il 10 dicembre prossimo. Sul banco degli imputati ci sono il barone belga Jean Loui De Cartier De Marchienne e il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, che dopo aver trafficato nella lavorazione della fibra cancerogena è stato rappresentante dell'Onu per lo sviluppo sostenibile. Non sono dirigenti di secondo piano, ma i più potenti signori dell'amianto a livello internazionale: accusati entrambi di disastro doloso (reato che prevede fino a 12 anni di reclusione) e rimozione volontaria di cautele (fino a 5 anni). Non solo avrebbero causato il «disastro», ma non avrebbero nemmeno svolto azioni per prevenirlo né per limitarlo.

Il gup ha respinto tutte le obiezioni della difesa e ha accolto in toto le richieste della Procura di Torino, formulate al termine della maxi inchiesta coordinata dal pm, Raffaele Guariniello, che a caldo ha commentato: «E' stata scritta una pagina importante della tormentata storia dell'amianto in Italia e nel mondo». Un passo storico. Lo dicono un po' tutti, perché da nessuna parte, neanche in Francia, si è riusciti a intraprendere un processo così importante per numero di casi trattati e per il ruolo dei dirigenti coinvolti, la testa di un sistema. Al pm torinese risponde l'avvocato Astolfo Di Amato, che guida il pool di difesa di Schmidheiny: «L'amianto - ha detto - fa parte della storia industriale e sociale, e in tribunale si giudicano gli uomini, non la storia. Il processo non va caricato di significati extra giuridici, come per esempio la responsabilità sociale degli imputati».

Quello del giudice Palmesino è stato un provvedimento lungo e dettagliato. Poteva essere - come spesso succede - un rinvio generico e sintetico, invece, si è rivelato il contrario. Il gup ha voluto sottolineare come i reati contestati (che partono dal 1952) non possano essere prescritti. Un'affermazione chiara: «Il disastro è ancora in atto». Scrive nel documento: «Il disastro si sta ancora manifestando, provocando nuove malattie, sia negli ex lavoratori, sia nei cittadini che vivono in prossimità degli ex stabilimenti Eternit, o nei luoghi in cui è in uso materiale derivato dalla lavorazione dell'amianto». Inoltre «il materiale derivante dalla lavorazione utilizzato per costruzione, pavimentazione e coibentazione è ancora attualmente in uso nei siti».

Commosso, all'uscita del Tribunale, Bruno Pesce, leader del Comitato vertenza Amianto: «Dopo anni si restituisce dignità alle vittime. Sappiamo che gli scogli più grossi devono ancora arrivare, ma quella di oggi è una tappa importante». La sua è una lunga lotta, iniziata sul finire degli anni Settanta e sempre accompagnata da una forte partecipazione sociale. Ieri, erano in 140 i casalesi in aula. Sono quelli che, con altre 550 fra persone fisiche ed enti territoriali, si sono costituiti parte civile. Tra loro c'è chi lavorava all'Eternit, chi ha contratto l'asbestosi, chi in quella fabbrica non ci ha mai messo piede, chi ha perso il padre, il marito, la moglie o il fratello. Tutti portavano un adesivo giallo con scritto «Strage Eternit: giustizia». Nei corridoi, dopo la notizia, sorrisi, lacrime e felicità. Finalmente vittime e parenti vedono aprirsi una porta di speranza. Troppe volte la loro ansia di giustizia è stata delusa. Escono dal Palagiustizia e commentano la decisione del gup con poche ma significative parole: «Siamo felici». Lo dice, per tutti, una donna con gli occhi lucidi. Qualcuno fa la «V» di vittoria, con l'indice e il medio della mano destra. Altri si sfogano: Pietro ha 63 anni e racconta di quando lavorava all'Eternit: «Scaricavamo l'amianto blu, il più pericoloso. Di trenta che erano con me, siamo sopravvissuti in due. E adesso quella gente là deve andare in galera». A mezzogiorno ritornano a Casale, la città della fabbrica del cancro, il maledetto mesotelioma. Ma anche la città che ha messo in atto la più grande bonifica (non certo per opera dell'azienda che i suoi rifiuti li ha lasciati lì dove stavano). Presto, in via Oggero dove sorgeva il grande stabilimento dovrebbe nascere un parco. Si chiamerà «Eternot». Un nome che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.

Sergio Bonetto è l'avvocato di parte civile. Insieme a Pesce, alla pasionaria Romana Blasotti Pavesi, a Nicola Pondrano (segretario della Camera del lavoro di Casale), è uno dei protagonisti di questa storia. Da anni difende le vittime. «Adesso inizia un processo storico, che potrebbe essere d'esempio per tanti altri. Auspichiamo sia partecipato. Vorremmo, infatti, coinvolgere gli avvocati dei paesi europei, perché quello dell'amianto è un problema che va oltre i confini». I numeri fanno spavento: nelle previsioni, nei prossimi decenni i morti nel vecchio continente potrebbero raggiungere la cifra di duecentomila.

Mauro Ravarino
da il manifesto del 23 luglio

martedì 21 luglio 2009

Ma la strage continua anche a Palermo

Dopo gli incidenti della Toscana, questa mattina anche la Sicilia è stata nuovamente colpita dall'ennesima morte sul lavoro. La vittima è Francesco Vitiello, rimasto schiacciato da un trattore per lo scarico dei container al porto di Palermo. Vitiello era impegnato nelle operazioni di smistamento merci da una nave Snav, proveniente da Napoli e appena arrivata nel porto siciliano.

Dopo l'incidente i lavoratori portali della Sicilia hanno deciso uno sciopero di 24 ore: "Le condizioni di sicurezza sono precarie, un solo lavoratore all'interno delle navi rispetto ai tre del passato, svolge queste mansioni - ha spiegato all'agenzia Adnkronos Nino Napoli segretario Fit Cisl Portuali - Da tempo segnaliamo queste carenze, ma rimaniamo inascoltati". Le segreterie regionali di categoria hanno indetto 24 ore di sciopero per i lavoratori portuali, mentre i marittimi ritarderanno di un'ora le partenze di tutte le navi.

Nella fabbriche della Toscana
un morto e una grave esplosione

Dopo l'incidente mortale avvenuto sabato 18 alla Asso Werke di Fornacette (Pisa), in cui ha perso la vita il lavoratore Luigi De Muzio, domenica sera, alle ore 22, un altro grave episodio ha colpito l'industria toscana. Una fortissima esplosione all'interno delle Acciaierie Lucchini, provocata da un getto di acciaio liquido fuoriuscito da una paiola e venuto a contatto con l'acqua, ha coinvolto 6 lavoratori. Uno di loro è grave, a causa di un trauma toracico, gli altri 5 sono rimasti intossicati.

Come sottolinea un comunicato della Fiom/Cgil: "Questo incidente dimostra gravi carenze nei mezzi utilizzati e una più generale inefficienza nell'organizzazione del lavoro, a fronte dell'aumento della produzione con un minor organico coinvolto. Questo infortunio non può essere addossato alla fatalità o ad errori nei comportamenti dei lavoratori. Al contrario, è l'ennesima riprova che nella crisi le imprese (comprese quelle ad alto rischio, come le aziende siderurgiche) non applicano correttamente le norme per la tutela della salute dei lavoratori e, anzi, arrivano addirittura a disinvestire nella sicurezza con un conseguente aumento degli infortuni".

La Fiom ha proclamato per oggi 2 ore di sciopero, coinvolgendo non solo gli operai della Lucchini, ma tutti i lavoratori delle imprese che operano nello stesso sito siderurgico. "Come Fiom riconfermiamo la volontà di continuare a opporsi alla scellerata intenzione del Governo di cancellare il Testo Unico."

giovedì 2 luglio 2009

Il colpo di stato honduregno,
un fiammifero acceso per Obama

da il manifesto del 2 luglio 2009
un articolo di Gianni Minà

Alla fine il golpe militare in Honduras, il secondo paese più povero dell’America latina dopo Haiti, ha finito per nuocere più di tutti, per ora, alla nuova amministrazione Usa del presidente Barack Obama, che è rimasto praticamente con il fiammifero acceso in mano, specie considerando la sua più volte affermata intenzione di cambiare metodi e politica nel continente che, una volta, era “il cortile di casa” degli Stati Uniti.

Perchè è vero che Obama ha condannato il colpo di stato in Honduras, dichiarandosi “seriamente preoccupato per la situazione” e chiedendo “a tutti gli attori politici e sociali di quel povero paese di rispettare lo Stato di diritto”, ed è vero che sulla stessa linea si è espressa anche Hillary Clinton, ministro degli esteri, che ha ribadito “Sono stati violati i principi democratici”.

Ma nessuno può credere che l’ambasciatore Usa in Honduras, Hugo Llorenz, pronto a sua volta ad affermare “L’unico presidente che gli Stati Uniti riconoscono nel paese è Zelaya” (proprio il premier liberale deposto e cacciato in Costa Rica) non sapesse da tempo cosa stesse per succedere.

continua a leggere sul sito di Gianni Minà

lunedì 29 giugno 2009

No al golpe in Honduras

La pagina web del governo in Honduras è stata oscurata. Non è possibile inviare mail direttamente agli ufficili governativi e presidenziali.


Spett.le
Ambasciata dell’HONDURAS
alla c.a dell’Ambasciatore
Roberto Ochoa Madrid

Tel. +39-06-3207236
Fax +39-06-3207973
Email: embhon@fastwebnet.it

Noi cittadini, esponenti della società civile e politica italiana, giornalisti e uomini di cultura, difensori dei diritti umani, viste le gravi notizie che giungono dall’Honduras di un colpo di stato in atto in queste ore, condannato anche dall’Unione Europea, abbiamo sentito la necessità di costituirci autonomamente e spontaneamente in un Comitato provvisorio di solidarietà al presidente legittimo dell’Honduras Manuel Zelaya.

Condanniamo pertanto fermamente quanto sta avvenendo a Tegucigalpa ed esprimiamo grande preoccupazione per la situazione dei diritti umani, civili e politici del popolo hondureño, dal momento che circolano voci di militari armati per le vie della città e della presenza di francotiratori e chiediamo inoltre l’immediato ritorno di Manuel Zelaya alla presidenza del paese e il ripristino dell’ordine costituzionale.

dal sito di Annalisa Melandri

mercoledì 17 giugno 2009

Torino, mobilitazione e teatro
per lottare contro le morti bianche

La lotta contro le morti bianche punta su Torino con due giorni di iniziative giovedì 18 e venerdì 19 giugno al Caffè Basaglia di via Mantova 34. A organizzare l'evento è l'associazione Legami d’Acciaio (ex lavoratori ThyssenKrupp e familiari delle vittime) in collaborazione con la Rete Nazionale per la Sicurezza nei luoghi di Lavoro.

Spiegano gli organizzatori: "La piaga e la vergogna tutta Italiana, che fa detenere il triste primato in Europa al nostro Paese per i morti (1300 circa all’anno, 4 al giorno, 1 ogni sette ore) i feriti (decine di migliaia ogni anno) e gli invalidi da lavoro (ricosciuti dall’Inail nell’ordine delle migliaia), fa sì che questo tema sensibile e trasversale nell’opinione pubblica, citato e decantato dalle Istituzioni, dalle forze Politiche e dalle Parti Sociali (Sindacati compresi) non trovi ancora soluzioni".

Un impegno costante quello della Rete Nazionale, "per dare risposte e combattere lo stillicidio quotidiano, che c’era da prima della tragica e maledetta notte del 6 dicembre alla ThyssenKrupp e che continua senza tregua nella strage di lavoratori in tutto il Paese soprattutto nell’Industria, nell’ Edilizia e nell’Agricoltura". Una lotta che verrà ribadita a Roma il 27 giugno, con un'assemblea nazionale delle Associazioni delle Vittime da lavoro, delle Rsu-Rls, di lavoratori di tutto il Paese. Proprio in preparazione di questa Assemblea, Torino si mobilita, con una conferenza stampa giovedì 18 giugno alle ore 11 in via Mantova 34 presso il Circolo Arci “Caffè Basaglia", a cui seguirà venerdì 19, alle ore 19, un aperitivo/assemblea della Rete Nazionale Torino che farà da prologo allo Spettacolo a cura del Teatro delle Ceneri "Ballata per una Morte Bianca" (ore 21).

Per contatti: Ciro Argentino 339.5062186 (responsabile organizzativo e relazioni esterne Associazione Legami d’Acciaio)

lunedì 15 giugno 2009

Denis, che lotta per una scuola decolonizzata in Benin


Incastonato tra Togo e Nigeria, il Benin è una lunga striscia di terra, grande quanto un terzo dell’Italia, che si affaccia nel Golfo di Guinea, Oceano Atlantico, Africa occidentale. E’ un paese di 7 milioni di abitanti, prettamente agricolo e dall’economia fortemente arretrata. La sua storia politica è turbolenta e negli ultimi quarant’anni ruota attorno alla figura discussa di Mathieu Kérékou, presidente del Benin dal 1972 al 1991, con un regime marxista solo nel nome, e ancora dal 1996 al 2006, questa volta in veste «democratica».
Il Benin sconta tutti i problemi strutturali dell’Africa e del suo mancato sviluppo: il peso mai tramontato del colonialismo, la corruzione al potere e l’analfabetismo. Quest’ultima è la vera piaga: riguarda l’80% della popolazione. Soprattutto nelle zone rurali, dove le famiglie più povere vendono i figli più piccoli ai trafficanti di «vidomegons», dal nome dell’antica tradizione locale per cui nelle campagna si mandavano i figli a studiare in città dai parenti ricchi. Ma adesso dai parenti, per lo più, non ci vanno e comunque mai a studiare. L’Unicef stima che nel 2007 sono stati quasi 140 mila i bambini beninesi sottratti alle proprie famiglie per essere portati a lavorare nei mercati o nelle case della capitale Porto Novo o in quelle del centro economico Cotonou oppure nelle piantagioni di Nigeria Togo e Costa d’Avorio. Una vera e propria tratta di esseri umani.
Se c’è un luogo da dove dovrebbe ripartire la lotta contro l’analfabetismo e contro la tratta questo è la scuola. Le classi sono affollate e l’abbandono è frequente (anche a causa dell’ostacolo della lingua, il francese, che a casa i piccoli delle campagne non parlano). In Benin, c’è chi si batte per una formazione diversa, uno di questi è Denis Yao Sindété, avvocato, politico, insegnante, ex prigioniero del regime Kérékou. Mauro Ravarino lo ha incontrato a Novara lo scorso autunno. Questa la sua storia.


Denis nasce nel 1958 in un villaggio sulla costa atlantica, non distante dal Togo. Già da piccolo era un bambino con le sue idee: «A 5 o 6 anni – racconta - per poter andare a scuola bisognava dimostrare di sapersi toccare le orecchie con la mano opposta. Non ce la facevo ancora, ma la voglia di iniziare, di fare quello che facevano i bambini più grandi, era tanta. E, allora, mi misi a protestare. Alla fine cedettero e mia zia, che abitava in una cittadina a 20 chilometri di distanza, mi prese in carico». Cominciano le scuole elementari. Denis gioca, si applicava nei compiti e dà una mano nei lavori domestici.

Gli anni corrono, il ragazzo diventa grande. Alle superiori conosce la politica e prende parte ad un’associazione studentesca. «La libertà di associazione era proibita, erano permesse solo le organizzazioni formalizzate e riconosciute dal regime». Nel 1978 Denis si trasferisce a Cotonou per frequentare l’università e si iscrive alla facoltà di diritto. Gli anni sono caldi, sono diversi i tentativi di colpo di stato e, soprattutto, «cresce il malcontento popolare nei confronti del regime marxista di Kérékou e del suo partito Partito popolare rivoluzionario del Benin (l’unico riconosciuto), al pari della povertà e della corruzione al potere». Gli studenti reclamano migliori condizioni di vita e di studio. «Le facoltà erano poche, come i laboratori e le biblioteche. Un’offerta scarsa rispetto ai diecimila studenti di Cotonou». Denis prende parte alle mobilitazioni e si avvicina al clandestino partito comunista del Dahomey (antico nome del Benin): «Nulla a che fare con Kérékou, per lui il comunismo era solo una copertura, infatti, nel 1989 per costruirsi una facciata democratica disse che del marxismo non aveva capito nulla». La contestazione sale: «C’erano già state proteste tra gli studenti e diversi arrestati. Nel 1979 i movimenti erano al loro picco di partecipazione. Chiedevano a gran voce che i dirigenti della cooperativa universitaria (unica associazione studentesca ammessa) venissero eletti e non stabiliti a priori dall’esecutivo di Kérékou». Il governo usa la mano pesante. Durante una manifestazione pacifica ci sono arresti di massa di professori e studenti. Uno di questi è Denis. «Dissero che nella cooperativa era pieno di spie e la colpa di tutto era del Partito comunista». Alcuni dei manifestanti erano iscritti al Pcd, ma la maggior parte non aveva nulla a che fare. Così, Denis finisce in carcere, accusato di attentato alla sicurezza dello Stato. Prima a Cotonou, poi viene trasferito a Porto Novo.

Sono gli anni più duri. «Le condizioni erano terribili, vivevamo tutti ammassati. Quindici persone in celle di 9 metri quadrati, dormendo su stuoie incastrati piedi contro teste. L’igiene era inesistente e il rischio di malattie infettive altissimo. Ci torturavano. C’era chi impazziva, non ce la faceva, non resisteva. Un mio compagno morì per le percosse. Io mi ammalai, ma lo scoprii solo anni dopo: era tubercolosi». Nonostante le difficoltà, il gruppo di studenti e professori non si dà per vinto e inizia una battaglia interna, sensibilizzando i detenuti comuni. Le proteste e la denuncia sulle condizioni in cui sono costretti a vivere superano le mura della prigione e arrivano fino in Francia, ad Amnesty International, che adotterà, tra gli altri, il caso di Denis, considerato «prigioniero di coscienza». Passano quattro anni. «Nel marzo del 1983, io e altri nove riuscimmo ad evadere ed eludere la sorveglianza. Fuggimmo in campagna, in clandestinità. Fino all’agosto 1984, fu un periodo di forte repressione ma anche di proteste nella società che indussero il governo a concedere l’amnistia per i detenuti politici». Finalmente liberi. «Tornai all’università e ci ritrovammo noi sopravvissuti al carcere. Nel dolore e nella difficoltà eravamo ancora più uniti e consapevoli che la lotta per una società giusta e libera dovesse continuare». Un anno dopo scoppiano molti scioperi e rischia di nuovo l'arresto. Il governo gioca la carta della repressione e a Denis tocca nascondersi. «Ero ricercato vivo o morto – spiega – dal 1985 al 1989 rimasi in clandestinità, passando di casa in casa». Ma il mondo sta cambiando e anche il Benin se ne accorge. La morsa del governo - forse per questo e per gli equilibri che ne conseguiranno - si allenta. Il primo agosto del 1989, mancavano tre mesi al crollo del muro di Berlino, viene concessa un’amnistia generale per persone e organizzazioni. Intanto Kérékou si prepara a travestirsi da «democratico». Nel 1991 ci sono le elezioni, ma viene sconfitto; ritornerà in sella cinque anni dopo.

«E’ vero - commenta - le elezioni nel mio paese ci sono, ma non sono democratiche perché l’analfabetismo è la più grande piaga, riguarda oltre l’80 della popolazione. La corruzione dilaga ed è capitato spesso che votassero pure i morti. E poi, il clientelismo: i voti vengono comprati fuori dal seggio in cambio di un po’ di sale». Denis lo racconta con voce pacata ma ferma. E’ venuto a Novara per curare i postumi della tubercolosi contratta vent’anni fa in carcere e, inoltre, perché è in contatto da tempo con la sezione locale di Amnesty, con cui mantiene un rapporto epistolare dagli anni della prigionia.

Dopo il carcere e la clandestinità, Denis è riuscito a completare gli studi, si è laureato in scienze politiche e relazioni internazionali. Ha insegnato diritto nelle scuole superiori, dove un professore di ruolo prende 150 euro e un precario ne guadagna 100. Ora, lavora all’Iniref, un’ong che si occupa di ricerca e formazione. Nel frattempo, si è sposato con Philomene, che fa la maestra e insegna alle elementari davanti a classi sovraffollate: «L’ultima è di 116 bambini», racconta non senza stupore. Ma a scuola gli alunni ci vanno poco, in Benin la dispersione scolastica è enorme. Uno dei motivi dell’abbandono è la lingua francese, un ostacolo per molti. «La si insegna fin dal primo anno. Un vero trauma, perché i piccoli a casa non la parlano e sui banchi si trovano di fronte a tante difficoltà. E a un certo punto mollano la scuola e vanno a lavorare». Il francese è la lingua ufficiale del Benin, più che altro un retaggio coloniale: diffusa solo nei centri urbani, lo è per nulla nelle campagne. Le lingue indigene più utilizzate sono, invece, il fon e lo yoruba. «Ci battiamo – spiega Denis che in Benin è molto attivo nel sociale – per una proposta di legge che preveda la prima alfabetizzazione (almeno tre anni) nelle lingue nazionali e dal quarto anno si parta col francese». Solo dalla scuola possono nascere cittadini consci dei propri diritti. Solo combattendo l’analfabetismo si possono affrontare i problemi dell’Africa. «La mobilitazione è ampia e ha coinvolto anche i genitori. Il governo sembra intenzionato ad accettare un progetto di riforma, ma è un’attenzione solo formale. Per adesso, non ha fatto nulla. La verità è che la Francia non vuole. Fino a quando non ci emanciperemo dal colonialismo non cambierà nulla. E’ uno dei problemi fondamentali che affligge l’Africa, insieme all’analfabetismo e alla corruzione al potere». E, intanto, la crisi continua.

di Mauro Ravarino da R/umori fuori fuoco