venerdì 26 marzo 2010

Pazzi per il cinema

Attraversano l’Abruzzo con un pullman per portare film e vita agli isolati delle new town. Loro, che sono Matti

L'AQUILA - Il brusio si sente anche dall’esterno, la stanza è una scatola sottile. Un container anonimo, come se ne vedono tanti dopo una catastrofe. Isolato, a lato dei padiglioni che un tempo ospitavano il manicomio di Collemaggio a L’Aquila. Rispetto ai muri crepati delle vecchie strutture, questo parallelepipedo bianco dà una certa sicurezza.

Ogni giorno si ritrovano qui una ventina di ragazzi del Centro di salute mentale. “Una beffa del destino tornare nel luogo che avevamo abbandonato più di dieci anni fa, al termine di una lunga lotta. È una collocazione di sofferenza, ma l’abbiamo accettata, dopo sette mesi passati in tendopoli”. Alessandro Sirolli, direttore del Centro, ha modi gentili e barba incolta. È uno psicologo di frontiera: allievo di Franco Basaglia, è stato impegnato fin dagli anni ’70 nel processo di smantellamento dei manicomi, in particolare quello di Collemaggio, chiuso nel 1996.

Ripartire dopo il terremoto non è stato semplice, ma Sirolli l’ha voluto fare proprio con i suoi matti e con un’iniziativa particolare. Dal 20 febbraio, infatti, gira con loro per le new town abruzzesi a bordo del Cinebus. “È un autobus trasformato in cinema -spiega lo psicologo-, per portare film e dibattiti nei nuovi quartieri, dove mancano spazi di socialità e la gente è sempre più isolata”.

L’Ama, l’azienda dei trasporti aquilana, ha concesso un pullman. La onlus romana “Chiara e Francesco” e l’associazione “180 amici” si sono fatte carico dell’impianto di proiezione e dei costi per due operatori. La prima tappa è stata la piazza del Duomo, nel centro de L’Aquila. Il Cinebus ha poi toccato le frazioni di Roio, Paganica e Colle Brincioni.

Il tour andrà avanti per tutta la primavera. Nei fine settimana il pullman raggiunge una delle new town, la gente si accomoda sui sedili e si gode lo spettacolo. Finora sono stati proiettati la fiction su Basaglia “C’era una volta la città dei matti”, “Si può fare”, del regista Claudio Manfredonia con la partecipazione di Claudio Bisio, e “Tutta la vita davanti”, di Paolo Virzì.

“È un ottimo modo per coinvolgere i matti, che mi accompagnano nelle diverse tappe del viaggio. Alla fine di ogni pellicola i cittadini e le persone che frequentano il Centro discutono di quello che hanno visto ma anche delle condizioni in cui stiamo vivendo oggi”.

Il contatto con la cittadinanza è linfa vitale per Sirolli e la sua attività. “Già prima del terremoto, avevamo pensato a una serie di iniziative da realizzare nella nostra sede appena ristrutturata, in via San Marciano, un palazzo settecentesco ora inagibile: un milione e 300mila euro di danni causati dal sisma”. L’idea era quella di presentare testi di scrittori abruzzesi. La scossa, però, ha sconvolto tutto. “Dopo il 6 aprile, la nostra terra si è riempita di giornalisti ed è arrivata una valanga di libri sul terremoto”, racconta Sirolli. I libri sono stati il primo veicolo per intraprendere quelli che lo psicologo chiama “laboratori di cittadinanza”.

I ragazzi di Sirolli hanno vissuto nelle tende, in mezzo agli altri. “Abbiamo scelto di stare nella tendopoli, quella del campo Globo, che si è trasformata nella sede provvisoria del Centro e in casa per decine di ragazzi che avevano perso la propria. Non senza resistenza della Protezione civile che ci voleva isolare su una collina. La tenda è uno spazio di socialità e contaminazione, proprio quello che cercavamo quando nel 1996 siamo usciti dal manicomio per permettere a queste persone di vivere in appartamenti in città”.

Il giorno dopo il terremoto era arrivata anche una proposta. Inaccettabile. “Tranquilli, ve li prendiamo noi i matti”. Erano i responsabili di Villa Pini, la casa di cura di Chieti di proprietà della famiglia Angelini, oggi al centro di un’inchiesta giudiziaria per truffa.

Sirolli ha voluto difendere i propri matti, scegliendo una soluzione precaria come quella della tendopoli. “C’era chi si lamentava perché il matto faceva la pipì fuori dalla tenda -ricorda-, poi magari si scopriva che era stato un vecchietto che non ce la faceva ad arrivare ai bagni. Ma soprattutto abbiamo ricevuto espressioni di vicinanza”. Il 2 novembre, quando il Centro è stato trasferito nel container e i ragazzi sono tornati a vivere nelle proprie case o nella new town, molti hanno pianto. “E ancora oggi se ci incontrano per strada ci chiedono come stanno Luigi, Danilo e gli altri”.

Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
Da Terre di mezzo di marzo

martedì 23 marzo 2010

Amianto, la conquista del Sud del mondo

Ci sono Paesi del mondo dove ad estrarre l’amianto dalle miniere sono le donne, e lo fanno a mani nude. Altri Paesi dove i governi negano e nascondono ogni forma di problema riguardante la pericolosità dell’amianto. Ci sono luoghi nei quali le multinazionali europee hanno siglato patti più o meno formali con i governi, dittature più o meno dichiarate, per portare avanti un’attività fatta di profitti e morte, disinteresse per la salute dei cittadini e dell’ambiente. Paesi in cui le polveri di amianto non sono considerate mortali, e nemmeno nocive, magari un po’ fastidiose per il respiro, ma comunque vengono viste come fonte di lavoro. La lunga mano dell’Eternit, e con lei di altre multinazionali dall’amianto come Saint-Gobain, a partire dagli anni ‘70, ha iniziato a lasciarsi alle spalle l’Europa per metter in atto una vera e propria colonizzazione dei paesi del Sud del Mondo. Lo hanno raccontato martedì diversi testimoni, nel corso della Conferenza organizzata dalla Iban (International Ban Asbestos Network) presso la sala convegni della Regione Piemonte, in corso Stati Uniti. Testimoni che si sono aggiunti ai loro colleghi europei, per raccontare storie di lotta e sfruttamento.

America Latina
In Brasile, ha spiegato Mauro Menezes, rappresentante dell’Abrea (Associazione Brasiliana degli Esposti all’Amianto), esistono alcune tra le miniere e le fabbriche di amianto più grandi al mondo. Un esempio è la città di Osasco, nello stato di San Paolo, fondata da emigranti italiani provenienti proprio dall’omonimo paese in provincia di Torino, dove ha funzionato per decenni uno stabilimento Eternit. Grande produttore ed esportatore, il Brasile ha visto moltiplicarsi le morti negli scorsi anni. E, nonostante le pressioni delle multinazionali e dell’Istituto Brasiliano dell’Amianto,i lavoratori sono riusciti ad ottenere una storica vittoria nel 2005: in seguito a una class action, il Tribunale di San Paolo ha condannato la multinazionale a risarcire 2.500 operai esposti. Inoltre l’Abrea è stata in grado di fare approvare leggi per la proibizione dell’amianto in diversi stati del Brasile, ancora non in tutti, ma l’impegno continua. Più difficile la situazione a Lima, dove il lungo governo Fujimori, con le sue politiche neoliberiste e repressive, ha bloccato ogni forma di azione penale volta a contrastare l’utilizzo e la produzione di amianto. Vietato solo negli ultimi anni, oggi questo minerale viene ancora commercializzato in Perù e, come ha mostrato Eva Delgado, dell’Asociacion frente al asbesto, in una serie di diapositive, è trasportato su camion scoperti. Oppure viene utilizzato per costruire baracche nei quartieri più poveri di Lima.

Asia
Nei Paesi asiatici, se possibile, la situazione è ancora peggiore. L’aspetto che più preoccupa è la difficoltà di reperire dati sulla roduzione, l’utilizzo e le morti provocate dall’amianto in Paesi come Cina, il maggiore consumatore e produttore mondiale, India e Thailandia. In Giappone la Eternit è arrivata con il nome di Japan Eternit Pipe, affiancandosi nella produzione a una serie di aziende locali. Grazie al lavoro delle associazioni si è riusciti negli ultimi anni ad avere una stima abbastanza precisa delle morti legate all’esposizione, nel 2007 ne sono state conteggiate più di 500, nelle varie imprese produttrici di amianto, ma sono dati molto parziali. Drammatica la situazione illustrata da Madhumita Dutta, riguardo all’India, dove la Eternit, oggi non più presente nel Paese, ha lasciato una dura eredità. Forti sono i contatti con il Canada, paese da dove l’India importa ogni anno più 300 milioni di tonnellate di amianto bianco. E dove ancora rimangono funzionanti miniere a cielo aperto, tra cui anche un sito nello sta to del Rajasthan di estrazione della pericolosissima tremolite, proibita in tutto il mondo. E poi l’amianto è presente nella navi, il cui smantellamento occupa decine di migliaia di lavoratori nello stato indiano del Gujarat. Da alcuni anni in Asia è attiva la Anroav, rete asiatica per le vittime delle morti sul lavoro. Si occupa di incidenti e malattie professionali, cercando di monitorare i vari Paesi e dedicando molte attenzioni all’amianto e alle altre sostanze nocive utilizzate spesso senza controllo. Qualche passo avanti si è fatto, come in Indonesia, dove si è riusciti ad avviare dei programmi di formazione per i lavoratori e il prossimo ottobre dovrebbe nascere la rete per la proibizione dell’amianto.

Ilaria Leccardi da Terra Comune

martedì 9 marzo 2010

Valledora: una storia di resistenza

Trecento chilometri quadrati di pianura padana tra le province di Vercelli, Biella e Torino, tra le risaie e il lago di Viverone, fino alle propaggini della Serra di Ivrea. Un territorio di confine, che ospita i depositi di scorie nucleari di Saluggia e Trino, le centrali termoelettriche di Livorno Ferraris e Chivasso, le cave di Tronzano, la linea ad Alta velocità Milano-Torino e le discariche di Cavaglià e Alice Castello. In questo comune sono stoccati due milioni e cinquecentomila metri cubi di rifiuti. E di siti ce ne sono addirittura tre. Il più recente doveva essere una bonifica dei precedenti, ma si è trasformato in una nuova discarica, più grande delle altre due messe insieme: un milione e duecentomila metri cubi. Una concentrazione di impianti inquinanti forse unica in Italia.

Che le cose stavano cambiando si capiva già a inizio anni '90, ma prima che si formasse una coscienza collettiva su quello che stava accadendo di anni ne sono passati ancora. Col tempo sono nati comitati operativi nei paesi della zona. Mancava solo un’unità d’azione. Così il 7 novembre 2007 si sono riuniti in un’unica sigla: Movimento Valledora. Un nome per dare seguito a una critica condivisa, un modo per dire che i problemi non sono singole realtà a sé, ma fanno parte di una più ampia problematica. «Siamo come Don Chisciotte e stiamo lottando contro un nemico invisibile, che ci arriva da ogni parte. La cattiva pianificazione territoriale», spiega Anna Andorno, portavoce del Movimento.

Quel giorno di novembre si incontrarono i comitati di Livorno Ferraris (con la lotta contro l’inceneritore ne è stato l’ispiratore), Borgo d’Ale, Alice Castello, Cavaglià, Tronzano e Santhià, dove si era costituito un gruppo di donne. Si trovarono per firmare una carta d’intenti. In seguito si aggiunsero quelli di Viverone e Moncrivello. Finalmente si partiva, parola d’ordine: «Salvare ciò che resta del nostro territorio e delle nostre storie». L’inizio, darsi un metodo e coordinarsi, non è stato facile. «Ma siamo cresciuti – racconta Anna Andorno -, abbiamo acquisito competenze. Ci battiamo perché si riprenda a

lottare per avere dignità e rispetto. Sembrerebbe un obiettivo timido, invece, è il primo passo verso qualcosa di rivoluzionario. Amare il proprio territorio non significa avere una senso protettivo o esclusivo nei suoi confronti, si tratta di ragionare in modo civico, di muoversi in una dimensione sociale, di non restare indifferenti ai problemi e di trattarli con partecipazione viva. Per fare questo abbiamo dovuto studiare, ricercare, informarci, chiedere consulenze, trattare con la diffidenza del potere politico».

La loro zona la raccontano come un territorio di confine “da colonizzare”. Non sanno dove mettere un impianto inquinante? Allora, lo piazzano qui ai confini tra le province, sperando di non avere troppe noie dagli abitanti. Ma c’è chi non ci sta: «Facciamo informazione – spiega ancora Andorno - verso la popolazione, le scuole, i gruppi. Da qui, l’idea di un documentario. Cercavamo un mezzo per arrivare al maggior numero di persone possibile, ci siamo autotassati e abbiamo affidato l’incarico al regista più bravo della zona, Matteo Bellizzi (autore di “Sorriso amaro”, ndr)». Un lavoro duro, 35 ore di ripresa. «Abbiamo trascinato Matteo ai convegni, ai tour sulle discariche, ai dibattiti nelle piazze, nelle cascine per intervistare i contadini locali». Poi la suspense del montaggio e la nascita di “Valledora. La terra del rifiuto”. «Un film bellissimo, vero, caldo. Il nostro problema è riassunto in 63 minuti e c’è proprio tutto. Matteo ha creato i personaggi e finalmente Valledora ha la sua storia».

In questi oltre due anni di lavoro il Movimento Valledora è diventata una presenza costante e “fastidiosa” sul territorio, con interventi puntuali ogni volta che si è prospettata l’apertura di un nuovo impianto potenzialmente inquinante. «Per ogni richiesta di apertura di cave, discariche o impianti richiediamo il progetto, informiamo la popolazione attraverso serate e volantinaggi, presentiamo osservazioni e tentiamo di incontrare le istituzioni». Una procedura che gli attivisti ripetono anche ad ogni nuova legge regionale o iniziativa provinciale che viene avanzata. E i primi segnali di ascolto da parte delle istituzioni sono arrivati. Il sindaco di Moncrivello (Vercelli) ha votato una mozione contro l’apertura di nuove cave sul territorio, anche se la ditta interessata ha comunque presentato una pratica di autorizzazione. Inoltre, la Regione Piemonte, anche sull’onda delle richieste del Movimento, ha commissionato il documento “Ipotesi di Piano strategico della Valledora”, che racconta lo scempio perpetrato a danno delle popolazioni locali e di quest’area in cui crescono i rischi per la salute se si considera la presenza delle falde acquifere e il pericolo che vengano inquinate dalle sostanze che si depositano nel sottosuolo.

E poi le azioni legali, difficili da portare avanti autonomamente perché costose. «Lavoriamo per i ricorsi al Tar con gli avvocati di Legambiente, Pro Natura e Lipu. Attualmente è in corso un’indagine della magistratura su un nostro esposto per un presunto danno ambientale provocato da una cava. In passato invece abbiamo vinto contro la provincia di Biella il ricorso sul Bioreattore di Cavaglià e abbiamo ottenuto un’ispezione della provincia di Vercelli alla discarica Ciorlucca di Alice Castello, dove sono state rilevate irregolarità”.

Un’attenzione allargata verso tutto ciò che può essere uso improprio del territorio e al tempo stesso risposta all’eccessivo consumo, a partire dalla più semplice delle azioni, come la raccolta differenziata. Anche per questo il Movimento Valledora ha aderito al Manifesto nazionale di “Stop al consumo del territorio”, un’iniziativa portata avanti da diversi comuni e associazioni italiane per sensibilizzare cittadinanza e istituzioni contro l’irrefrenabile marcia del cemento e lo sfruttamento incondizionato del paesaggio. In questo senso, ad esempio, a fronte della futura costruzione di tre nuove discariche nel comune di Livorno Ferraris il Movimento ha lanciato una petizione per l’impianto di 20mila alberi al posto di una discarica. «Siamo folli... – sorride Anna Andorno – Ma la nostra unica speranza è la coscienza dei cittadini. Che si risvegli e poi... nessuno ci fermerà».

di Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
da Cenerentola