venerdì 28 maggio 2010

Il maggio del maledetto amianto Eternit

Dopo l’audizione dei primi due testimoni chiave, Nicola Pondrano e Carlo Pesce, figure simbolo della lotta all’amianto di Casale Monferrato, il maxi processo Eternit è entrato nel vivo. Maggio è stato un mese denso di racconti e testimonianze, che hanno posto i primi tasselli di un complesso mosaico che vede alla sbarra i due massimi dirigenti della multinazionale dell’amianto, lo svizzero Stephan Schmidheiny, e il belga Jean Louis de Cartier de Marchienne. Quattro udienze, quelle celebrate nell’ultimo mese, che hanno avuto protagonisti differenti, a partire dall’attuale e dall’ex-presidente della Regione Piemonte, rispettivamente Roberto Cota e Mercedes
Bresso, passando per le mogli di lavoratori morti di mesotelioma.

Udienze che hanno messo in luce la sofferenza degli operai di Casale Monferrato, Cavagnolo e Rubiera, costretti a lavorare in mezzo alle polveri di amianto. E poi la sofferenza degli abitanti di Casale che hanno presto iniziato a morire anche se nulla avevano a che fare con la fabbrica Eternit: semplicemente vivevano lì o lavoravano nei dintorni. Il 10 maggio Giovanna Patrucco, figlia di una coppia di panettieri che avevano il negozio a 200 metri dallo stabilimento ha raccontato: la mamma è morta di mesotelioma, dopo che per anni i lavoratori dell’industria di amianto si sono recati nel suo negozio per comprare da mangiare con le tute ancora sporche di quella polvere bianca.

La geologa Laura Turconi il 4 maggio ha spiegato le sofferenze del grande fiume, il Po, utilizzato per anni come vera e propria discarica; ha descritto i cambiamenti morfologici del fiume, a causa delle tonnellate (20 a settimana) di detriti di amianto riversati sulle sue rive. Quanto avvenuto è stato ribadito, un paio di settimane più tardi con la presenza in aula di Enrico Bagna, titolare della ditta che, dal 1972, si è occupata dello “smaltimento” dei rifiuti di amianto, ossia l’abbandono a cielo aperto lungo gli argini del fiume degli scarti di produzione. Una testimonianza controversa e delicata, per un uomo che già in passato aveva dovuto affrontare la contestazione di reati ambientali, e che si è difeso così: "All’epoca le norma lo permettevano, non c’erano restrizioni". Almeno fino al 1983, quando
furono modificate le regole e Bagna attivò una discarica in un luogo differente, chiusa però poco dopo.

E infine la sofferenza di una città, Casale Monferrato, sulla quale sono stati chiamati a testimoniare l’attuale primo cittadino, Giorgio Demezzi, e i suoi predecessori, Paolo Mascarino (dal 1999 al 2009) e Riccardo Coppo (dal 1984 al 1988 e dal 1995 al 1999). Quest’ultimo, sindaco quando l’Eternit ancora funzionava, ha ricordato la preoccupazione per le condizioni di lavoro degli operai: nel 1985 scrisse una lettera indirizzata direttamente a Schmidheiny, ma non ricevette mai risposta. Nel lungo e difficile lavoro di bonifica gli ex dirigenti mai sono intervenuti: in totale è costato oltre 10 milioni di euro.

A partire dall’ultima udienza, quella di lunedì scorso, l’attenzione ha iniziato a spostarsi sulla dimensione internazionale della vicenda Eternit, grazie alla testimonianza fornita da Francois Iselin, membro dello svizzero Caova (Comitato aiuto e orientamento per le vittime dell’amianto). Architetto, ex professore al Politecnico di Losanna, Iselin, che da decenni si occupa di amianto, ha spiegato come la consapevolezza che questa sostanza fosse cancerogena si avesse già almeno dal 1962. In Svizzera ne venne vietato l’uso nel 1990, eppure la Eternit ebbe una proroga per altri quattro anni fino al 1994, per le fabbriche di Payerne e Niederurnen. Iselin, però, si è spinto anche più in là, raccontando come fosse usanza della multinazionale riversare gli scarti di produzione in fiumi, boschi, creando talvolta vere e proprie montagne di rifiuti: avvenne nel terzo mondo, in Nicaragua.

E poi si è parlato di Svizzera e Germania, grazie all’intervento di Silvano Benitti, ingegnere, che dal 1975 al 1979 ha lavorato per la Eternit, prima un anno a Casale, per seguire un periodo di formazione, quindi all’estero e nel sud Italia, alla Cemater di Ferrandina, azienda partecipata Eternit. Benitti ha sottolineato come, alla fine degli anni Settanta, il pericolo per la multinazionale era proprio la possibilità che iniziasse a diffondersi la consapevolezza del pericolo. Dicevano: "La diffamazione sull’amianto rischia di mettere a rischio la nostra attività". Non le persone, non l’ambiente. Ma l’attività e il profitto. E anche qui, un ricordo, una certezza, l’inesorabile frase, ripetuta dai vertici aziendali fin dal 1975: "Sappiamo che l’amianto è potenzialmente pericoloso, ma per evitare problemi basta adottare le adeguate misure di controllo". Il processo riprenderà lunedì 7 giugno.

di Ilaria Leccardi da Terra Comune del 28 maggio 2010

mercoledì 19 maggio 2010

I cubani che scoprirono il terrorismo Usa

articolo di Gianni Minà, apparso domenica 16 maggio su Il fatto quotidiano

Caro Direttore,
questa volta ti chiedo spazio per raccontare una storia emblematica che spiega quanto sia crudele l'embargo Usa nella vita di Cuba.
Alla metà degli anni ’90 le attività terroristiche dei gruppi che dalla Florida e dal New Jersey organizzavano attentati e provocazioni lungo le coste di Cuba, con la complicità della famigerata Fondazione cubano-americana di Miami, erano diventate così numerose e pericolose che il governo de l’Avana fu costretto a prendere due decisioni fondamentali.

La prima fu quella di infiltrare, nelle maglie della società nordamericana, cinque agenti dell’intelligence che, rinunciando per un lungo lasso di tempo alla loro vita personale e rompendo ufficialmente con le loro famiglie e il loro paese, cercassero di scoprire dove nasceva l’eversione per poterla neutralizzare.
La seconda decisione impegnò invece in prima persona Fidel Castro che chiese al premio Nobel della letteratura Gabriel García Márquez se poteva essere latore di un messaggio informale a Bill Clinton.
L’allora presidente degli Stati Uniti aveva, infatti, più volte dichiarato di essere un lettore fedele delle opere del grande scrittore colombiano, tanto da tenere i suoi romanzi sul comodino e di non addormentarsi senza leggerne una pagina.
A queste dichiarazioni erano seguiti diversi inviti a Márquez, che aveva trascorso perfino un week end ospite dei Clinton, con il collega messicano Carlos Fuentes, all’isola Martha’s Vineyard.
Márquez in quegli incontri aveva spiegato Cuba al Presidente e aveva espresso le aspettative che i popoli a sud del Texas nutrivano, dopo gli anni crudeli dell’Operación Cóndor, l’annientamento delle opposizioni latinoamericane benedetto da Nixon e Kissinger, e dopo la stagione del “reaganismo”.
Ma Clinton, che (come il premier spagnolo Aznar) aveva avuto un consistente contributo elettorale proprio dalla Fondazione cubana-americana, non aveva potuto mantenere le sue promesse di un cambio di rapporto con l’isola della Revolución e nemmeno di una reale apertura nelle politiche con l’America latina.
Così non per caso, quella volta, nella primavera del ‘98, il Gabo, alla fine dei suoi seminari all’Università di Princeton, non riuscì' a incontrare, come al solito, il suo amico Presidente e dovette accontentarsi di consegnare il delicato messaggio di Fidel Castro allo staff della Casa Bianca.

Nel frattempo, Gerardo Hernandez, René Gonzales, Fernando Gonzales, Antonio Guerrero e Ramon Labañino, i cinque agenti dell’intelligence cubana, avevano portato a termine la loro pericolosa missione. Le risultanze della loro ricerca erano apparse subito così delicate anche per la plateale connivenza di alcuni organi federali Usa, che il governo cubano si era visto costretto, attraverso la diplomazia sotterranea che non ha mai cessato di funzionare fra i due Paesi, a chiedere un incontro fra le parti. Una delegazione dell’Fbi volò all’Avana per ricevere una copia dei dossier raccolti. Ma dopo che questa documentazione fu esaminata, il governo di Washington, invece di catturare Luis Posada Carriles, Orlando Bosch, Santiago Alvares, Rodolfo Frometa o i Fratelli del Riscatto (Brothers to the Rescue) di José Basulto, veri Bin Laden latinoamericani, decise l’arresto dei cinque cubani che avevano individuato le centrali terroristiche attive in Florida.

La loro odissea era appena cominciata. Dovettero aspettare 33 mesi, 17 dei quali in isolamento e 4 settimane nell’hueco (il buco, una cella di 2 metri x 2 dove la luce è sempre accesa) prima di essere rinviati a giudizio per spionaggio. Il loro ritorno in una cella normale fu possibile solo grazie a una campagna internazionale alla quale parteciparono un centinaio di deputati laburisti inglesi e Nadine Gordimer, scrittrice sudafricana, anch’essa Nobel per la Letteratura.
Non mosse un dito invece Freedom House, uno degli organismi sovvenzionati dal NED, l'agenzia di propaganda della Cia, che ha la presunzione, ogni anno, di dare le pagelle sulla democrazia e la libertà di informazione nei vari paesi. Tacquero anche i Reporters sans frontières, sempre latitanti nelle battaglie per le violazioni dei diritti umani commessi dagli Usa.
Il processo fu una vera farsa con esplicite minacce e aggressioni ad alcuni giurati e condanne inaudite a vari ergastoli per i Cinque.
L’avvocato Leonard Weinglass, difensore di Antonio Guerrero e vecchio combattente per i diritti civili (è stato il difensore di Mumia, di Angela Davis, dei cinque di Chicago) affermò che erano stati violati il 5° e il 6° emendamento della Costituzione del Paese.

Non era una esagerazione. Nell’agosto del 2005, infatti, tre giudici della Corte d’Appello federale di Atlanta che ha giurisdizione sulla Florida (e che potevano intervenire solo se avessero accertato, come è avvenuto, errori legali e di diritto commessi nel primo giudizio) revocarono la sentenza espressa dal Tribunale di Miami nella primavera del 2003, chiedendo un nuovo dibattimento in una città diversa e meno condizionata dall’odio. Sottolinearono, infatti, che non c’era stata diffusione di informazioni militari segrete e che non era stata messa in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti.

I cinque cubani, in attesa di un nuovo giudizio, non furono però liberati. Un anno dopo, ancora la Corte d’Appello di Atlanta, allargata a nove membri per le pressioni del ministro della Giustizia Alberto Gonzales, grande propugnatore del “diritto a praticare la tortura” delle forze armate Usa, revocò a sua volta la decisione presa dai giudici Stanley Birch, Phyllis Kravitch e James Oakes che, dodici mesi prima, “nell’interesse dell’etica e della giustizia” avevano dichiarato nulla la condanna per spionaggio emessa contro i Cinque a Miami.
Di fatto, il caso fu congelato e spedito alla Corte Suprema con un’istanza per la revisione del processo accompagnata da interventi di “amici della Corte” (amicus curiae brief), firmati da dieci premi Nobel e dalla ex commissaria per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.
Ma tutto questo non è servito a nulla. Il 5 giugno 2009 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha infatti annunciato, senza motivazioni, la sua decisione di non riesaminare il caso dei Cinque.
L’avvocato Weinglass ha denunciato ancora una volta la latitanza, fin dall’inizio, dei mezzi di informazione in un caso che pure toccava importanti questioni di politica estera e di terrorismo internazionale.

Non a caso, il 3 marzo 2004, il più prestigioso intellettuale degli Stati Uniti Noam Chomsky, l’ex ministro della Giustizia Ramsey Clark, il vescovo protestante di Detroit Thomas Gumbleton, il Nobel della Pace Rigoberta Menchú ed altre personalità, avevano dovuto comprare, per sessanta mila dollari, una pagina pubblicitaria del New York Times, per far conoscere finalmente questa storia nascosta fin dall'inizio all'opinione pubblica.
Nella pagina ci si chiedeva: “E’ possibile essere imprigionati negli Stati Uniti per aver lottato contro il terrorismo?”. E la risposta sotto era: “Si, se combatti il terrorismo di Miami”.
Negli ultimi sei anni non è cambiato nulla. Ma Obama ha vinto in Florida, e persino a Miami, senza l’aiuto, come fu per Bush jr., della Corte Suprema e senza l’appoggio dei gruppi della destra eversiva della Florida.
Sarebbe semplice per lui dimostrare che la politica estera del suo governo non è condizionata dai terroristi legati alla Fondazione cubano–americana di Miami, autori, in questi anni, di 681 attentati , che hanno assassinato 3478 persone, e ferito altre 2000.
Per ora, Obama, ha incontrato solo i “duri” di Miami. Sarebbe utopistico sperare in un cambio di politica?

Gianni Minà, da Latinoamerica

venerdì 7 maggio 2010

Alessandria. Taekwondo e arte di vivere
per una polisportiva antirazzista

Domenica 2 maggio 2010. Palestra del Laboratorio Sociale. Esibizione del corso di Taekwondo. Dagli spalti vediamo il cuore pulsante della Polisportiva Antirazzista Uppercut. È un cuore meticcio, solidale, degno come le atlete e gli atleti che si stanno esibendo davanti a uno dei pubblici più eterogenei e nutriti che ricordiamo. Un cuore che ci rappresenta così tanto da lasciarci quasi a bocca aperta. Più di un anno fa, quando le attività dell’Uppercut si sono spostate al Laboratorio Sociale, avevamo semplicemente la speranza di costruire quello che invece oggi si materializza ai nostri occhi.

Questo è l’ultimo evento sportivo “casalingo” della stagione. Gli atleti sono più di venti, tra bambini e adulti. Disposti su più file stanno mostrando le forme, le tecniche principali e le acrobazie di un’arte affascinante che, come spiega il Maestro Naceur Atia, è una vera e propria filosofia centrata sull’etica della pace (simboleggiata dal colore bianco del dobok, la divisa) e della giustizia, in un insieme di forza spirituale, di autocontrollo, di rispetto per sé e per gli altri. Come molte delle arti orientali, anche il Taekwondo è un modo di vivere più che una disciplina sportiva pura e semplice. Un modo di vivere che, con le dovute proporzioni, non si discosta poi così tanto dal nostro. Lo sport in quanto tale è ciò che ci permette di costruire una modalità nuova di vivere tra tanti e diversi, nella valorizzazione delle differenze e nel reciproco rispetto. Trascende la semplice cura del corpo e alimenta lo spirito nella ricostruzione del senso più umano e fraterno dell’esistenza, così distante dalle logiche utilitaristiche della società di oggi. È la ricerca di nuove pratiche di condivisione, orientate alla pacifica convivenza dei popoli e tese al raggiungimento di un’eguaglianza universale tra tutti gli esseri umani. È uno strumento di socializzazione che, supportato da una filosofia comune e condivisa, non esclude nessuno e dà ad ognuno la possibilità di misurarsi con sé e con il mondo in maniera costruttiva.

E quindi eccolo il cuore dell’Uppercut: bambini e adulti, atleti e famiglie di ogni provenienza e con alle spalle le storie più diverse che si esibiscono, simulano combattimenti o semplicemente osservano e filmano lo spettacolo da qui, dagli spalti su cui sediamo anche noi che alla polisportiva abbiamo dato formalmente vita. Negli sguardi di ciascuno si esplicita in tutta la sua potenza il senso di appartenenza ad una comunità allargata, che è sì quella sportiva ma è anche quella delle piccole emozioni quotidiane che ci legano e ci fanno crescere giorno dopo giorno. Jospeh, Elion, Lucrezia, Ivo, Lorenzo, Luca, Mohamed, Soufiane, Angelica sono solo alcuni dei nomi dei piccoli e grandi atleti che ci incantano, ci fanno sorridere e ci ripagano di ogni sforzo fatto fino ad ora. Sono arrivati in palestra alle 14 per le prove generali e intorno alle 18, quando l’esibizione sta volgendo al termine, sono stremati ma hanno ancora voglia di raccontare e raccontarsi attraverso lo sport.

Il 22 maggio 2010 alcuni di loro gareggeranno a Losanna per la competizione internazionale degli “Open 2010” e ci rappresenteranno di fronte a circa 600 atleti di ogni parte del Mondo, tra le nostre gioia e incredulità per essere arrivati così tanto lontano con le nostre sole risorse.

Più di un anno fa, quando speravamo in qualche cosa di grande, non avevamo che la presunzione di immaginare tutto questo. Oggi sappiamo che osare la speranza non è, sempre, una follia. Nel nostro caso corrisponde ad un’unione sapiente tra forza interiore, autocontrollo, rispetto e voglia un po’ ribelle di rivendicare diritti per tutti, capace di generare spazi fisici e mentali liberi e solidali, al di là di qualsiasi barriera o confine.

Polisportiva Antirazzista Uppercut, da globalproject

Uppercut. Un pugno al razzismo

Naceur ha i capelli scuri, con qualche lieve sfumatura grigia. Nel corpo una forza esplosiva, la voce tonante, gli occhi profondi. È tunisino, cintura nera, quarto dan di Taekwondo. Ha fatto parte della Nazionale del suo Paese, partecipando alle selezioni per Seul 1988. Oggi insegna la sua arte nella palestra della Polisportiva Antirazzista Uppercut. Una realtà nata ad Alessandria nel 2007 nel Centro Sociale Crocevia, e che dall’aprile 2009 ha trovato una sede ufficiale in via Piave 65, nell’ex caserma dei Vigili del Fuoco, riuscendo a dare il via a diverse nuove attività.

Le grida degli allievi impegnati nell’allenamento si sentono fin dalla strada. Una popolazione mista di italiani e migranti, da bambini di 4-5 anni riuniti con altri giovanissimi in un corso specifico ai trentenni del corso per adulti. Si stanno preparando per una gara e per l’esame di cintura. Alcuni la indossano bianca, alcuni gialla, poi blu e rossa. Nera solo Naceur, almeno per ora. “Questo corso è il nostro fi ore all’occhiello”, sorridono soddisfatti Federica e Andrea, due dei ragazzi che hanno dato via al laboratorio sportivo e sociale di via Piave, diventato ormai un cuore pulsante della città. Non solo per le attività sportive che al suo interno si svolgono, ma per tutta una serie di iniziative rivolte alla popolazione italiana e migrante. Impegno politico e sociale, partecipazione attiva, condivisione.

Tutto inizia nell’ottobre 2008, quando un gruppo di ragazzi appartenenti a varie realtà alessandrine come il Centro Sociale Crocevia, il Movimento Studentesco, la Rete Sociale per la Casa e la stessa Uppercut, ancora agli inizi del suo percorso, affiancati dalla Comunità di San Benedetto di Genova (quella di Don Gallo, per intenderci), occupano lo stabile di via Piave, dismesso ormai da due anni, dopo il trasferimento dei Vigili del Fuoco in una nuova sede. La caserma è grande, costituita da diverse palazzine e da un corpo centrale che un tempo al piano terra ospitava uffi ci e al primo piano una palestra, non tanto grande e nemmeno nuova, ma in buono stato. Fino ad alcuni anni fa vi si allenavano i vigili del fuoco e gli atleti della storica Società Ginnastica Scapolan di Alessandria, costretti ad abbandonare l’impianto nel 1995. L’occupazione dura due settimane, poi i ragazzi indicono un’assemblea pubblica, il 17 ottobre. Un appello alla cittadinanza, al motto di “Abbiamo liberato uno spazio, ora liberiamo le idee!”, e una richiesta all’amministrazione provinciale, proprietaria dell’immobile.

“L’obiettivo era recuperare un luogo dismesso da troppo tempo e restituirlo alla città”, spiega Federica. “Volevamo uno spazio che fosse antirazzista, antifascista, antisessista e antiproibizionista. Insomma, uno spazio aperto a tutti. E così ci siamo dati una sorta di regolamentazione, per cui abbiamo deciso, ad esempio, di non bere e non fumare all’interno dello stabile. Un modo per dimostrare il rispetto verso culture e sensibilità diverse, e per permettere a tutti di avere accesso a questo nuovo ambiente e di viverlo nel migliore dei modi”.

In seguito all’assemblea, la Provincia concede lo spazio in comodato d’uso gratuito ai ragazzi e da quel momento partono i lunghi mesi di ristrutturazione. L’inaugurazione, il 24 aprile 2009, dà il via a tante attività: dai corsi di alfabetizzazione e lingua italiana per bambini, ragazzi e adulti stranieri, ai corsi di lingua araba e spagnola; dallo sportello legale a quello per la raccolta e distribuzione di vestiti; dalle attività della Rete Sociale per la Casa e dell’Associazione “Migranti Senza Frontiere” all’idea di dar vita a un laboratorio teatrale multietnico. Ma, soprattutto, la dinamica e vitale palestra, che, come le altre realtà, ha avuto un ruolo importante anche in occasione dello sciopero nazionale dei migranti, tenutosi in tutta Italia il 1° marzo e organizzato ad Alessandria a suon di assemblee che hanno visto protagonisti, oltre ai rappresentanti di tante associazioni di migranti del territorio, anche i ragazzi dei corsi, i genitori, gli insegnanti. In vista di quell’appuntamento la palestra era stata teatro di un incontro pubblico, il 13 febbraio, in cui è stato presentato l’evento ai cittadini e proiettato un video sui fatti di Rosarno. Quel giorno la palestra era affollata, ma in realtà è popolata tutti i giorni. Ogni settimana, dal lunedì al giovedì, a partire dalle 18, quel grande spazio dalle pareti bianche e in qualche punto un po’ ammuffi te, si riempie di bambini e ragazzi che partecipano ai corsi. Alle pareti campeggiano striscioni e manifesti che riportano scritte del tipo: “Nello sport come nella vita. Nella vita come nella lotta. Solidali”. E lo spirito che si respira al suo interno è davvero questo.

Finora le discipline che sono state attivate sono quattro. Il già citato Taekwondo, arte marziale coreana il cui nome significa letteralmente “arte dei calci volanti e dei pugni”; la boxe, come testimoniano i sacchi appesi a una delle pareti lunghe della palestra, attività in cui l’Uppercut collabora con l’Associazione Pugilistica
Valenzana; il calcio a cinque, sezione in cui si sono già formate diverse squadre maschili e femminili, che hanno partecipato a tornei antirazzisti e puntano per il futuro a un ingresso nei tornei Uisp, di cui l’intera Polisportiva fa parte. Infine, l’ultima arrivata, il minibasket, i cui corsi sono organizzati dalla associazione senegalese Diaspora.

Prezzi popolari per le iscrizioni, le cui quote finiscono completamente in cassa comune. Allievi e sportivi provenienti da tutte le parti del mondo, dal Nordafrica all’America Latina, dai Paesi dell’Est europeo all’Africa nera. In questa palestra tutti i giorni lo sport diventa veicolo di unione e socializzazione, il tentativo di costruire qualcosa senza grandi risorse economiche ma con grandi risorse umane, passione e serietà. Lo dimostra l’impegno di Naceur, che è anche coordinatore regionale della Fita (Federazione Italiana di Taekwondo), e nei prossimi mesi ha già programmato una serie di competizioni a livello regionale e non solo. Per una gara se ne andrà addirittura in Svizzera con i suoi allievi, a cui chiede puntualità, impegno, partecipazione. “Ogni calcio e ogni pugno preso o dato qui dentro, spiegano i ragazzi della Polisportiva, è contro il razzismo e punta alla partecipazione di tutti, senza barriere, per costruire un percorso comune di lotta contro le discriminazioni e di valorizzazione delle differenze”.

Un percorso che parte dalla strada, dalle esperienze condivise, dalle difficoltà: lo dice il nome stesso della Polisportiva, “Uppercut”, un pugno che parte dal basso.

di Ilaria Leccardi, da Piemonte Mese di maggio 2010

martedì 4 maggio 2010

Stefano Cucchi: falsità ed omissioni per nascondere il pestaggio

Sarebbe bastato un semplice cucchiaino di zucchero sciolto in un bicchiere di acqua a salvare la vita di Stefano Cucchi. E’ quanto i pubblici ministeri Barba e Loy scrivono nell’atto di fine indagine appena depositato che contesta “le mancate cure” al giovane da parte del primario dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dei quattro medici e dei tre infermieri. Le accuse sono precise: favoreggiamento e abbandono di incapace con l’aggravante di averne provocato la morte, abuso di ufficio e falso ideologico. Tredici le persone coinvolte che finiranno sotto processo tra personale medico e paramedico, secondini e un dirigente dell’amministrazione penitenziaria.

Ma ripercorriamo insieme le tappe:
15 ottobre 2009, ore 23,30: Stefano Cucchi viene arrestato per possesso di modesta quantità di sostanze stupefacenti. E’ sano, la mattina era stato in palestra ad allenarsi.
16 ottobre, sotterranei del tribunale di Roma: al processo Cucchi arriva con il volto gonfio e con delle ecchimosi sotto gli occhi.
22 ottobre ore 03,00: Stefano Cucchi muore per disidratazione nel padiglione carcerario dell’ospedale Pertini di Roma; è denutrito, ha il corpo ricoperto di ematomi, fratture e altre lesioni.
La procura avvia un’indagine per omicidio preterintenzionale, la salma del giovane romano viene riesumata per ulteriori accertamenti, il 13 novembre arrivano i primi avvisi di garanzia ai tre agenti della polizia penitenziaria e ai tre medici del Pertini.
Il DAP, dipartimento di amministrazione penitenziaria, dispone un’inchiesta interna e assolve gli agenti; i medici vengono rimossi dalla Asl ma, in seguito alle proteste dei colleghi e dell’ordine dei medici, vengono reintegrati.

Oggi cade l’accusa di omicidio, la posizione degli agenti della penitenziaria si attenua, è vero, ma quella dei medici fa venire la pelle d’oca, rischiano otto anni di carcere.
Hanno abbandonato Stefano, hanno aggiustato la cartella clinica, hanno “orientato” la destinazione in un reparto, quello carcerario, non adatto alle condizioni del paziente e infine hanno mentito sulle “buone condizioni di salute”. Scrivono i pm:“ intenzionalmente gli procuravano un danno ingiusto di rilevante gravità nel ricoverarlo in un centro inidoneo”.

Ma ancora una volta non si riesce a dare una risposta alla domanda: come un ragazzo arrestato in buone condizioni di salute si è ritrovato morto in un letto d’ospedale dopo soli sei giorni? I medici lo avrebbero potuto salvare ma chi lo ha ridotto in quello stato?
E’ quanto si cercherà di capire nel dibattimento. Negli atti depositati qualche altro frammento di verità viene fuori: si riconosce, intanto, che all’origine del decesso c’è stata un’aggressione e forse più d’una; c’è l’ipotesi che “in concorso tra loro alcuni agenti, abusando della loro autorità, spingendo e colpendo con calci Stefano Cucchi, lo facevano cadere in terra causandogli politraumatismo, lesioni e fratture alla IV vertebra sacrale” e perchè si sarebbero così accaniti contro il detenuto? “per farlo desistere dalla richiesta di farmaci e dalle continue lamentele”.
Gli agenti non sopportavano i lamenti di dolore del geometra romano, non volevano sentirlo, dava loro fastidio dunque bisognava punirlo.

La famiglia di Stefano Cucchi non si arrende, la sorella Ilaria parla di ricostruzione “allucinante” di quei momenti. “Ora so che mio fratello è stato ucciso -ha detto- questa cosa è stata chiarita, Stefano è stato letteralmente abbandonato dai medici che si sarebbero dovuti prendere cura di lui” ha aggiunto Ilaria. La sorella e tutta la famiglia di Stefano ora sperano che nei prossimi giorni si faccia chiarezza e si scopra la verità sulle prime ore dopo l’arresto del ragazzo, partendo dal pestaggio potrebbe nuovamente cambiare la posizione degli agenti della penitenziaria che lo tennero in custodia.

Ma bisognerà attendere il processo per avere una risposta alle centinaia di domande che tutti noi ci siamo posti in questi interminabili 200 giorni. Appare chiaro però l’impulso sadico che ha invaso corpo e mente di questi 13 uomini, una violenza gratuita, una cattiveria difficilmente raccontabile forse dettata dalla paura di essere scoperti e additati come torturatori che prima ha fatto marcire, nelle celle di sicurezza del tribunale, un giovane romano arrestato per 20 grammi di hashish e due di cocaina e poi lo ha lasciato morire sapendo che si sarebbe potuto salvare con un semplice bicchiere di acqua e zucchero.

di Roberta Serdoz, da Articolo21, 2 maggio 2010

sabato 1 maggio 2010

Eternit: le menzogne, l'irrisione, le spie

"La politica dell’Eternit era di negare, quasi ridicolizzare, coloro che prendevano posizione sulla pericolosità dell’amianto. L’azienda escludeva la possibilità di rischi. Anche contro questo abbiamo dovuto batterci, per recuperare una coscienza collettiva". Lunedì 26 aprile, al maxiprocesso contro i dirigenti della multinazionale dell’amianto, è stato il giorno di Bruno Pesce, il secondo teste chiamato dal pm. Segretario della Camera del Lavoro di Casale Monferrato dal 1979 e referente dell’Associazione Famigliari delle Vittime, Pesce ha ripercorso gli ultimi anni di vita dello stabilimento casalese, chiuso nel 1986, e la lotta mai cessata contro l’amianto. E ha raccontato come, proprio negli anni in cui operai e cittadini iniziavano a comprendere la correlazione tra polveri di amianto e morti, la multinazionale lavorava per smentire ogni preoccupazione.

"Ricordo appelli della Eternit, anche sui giornali, che invitavano i cittadini a visitare la fabbrica. L’azienda negava i pericoli, lo ha fatto in Italia, ma anche all’estero, in Francia, in Svizzera, per non parlare del Brasile. Addirittura il dottor Costa, un dirigente dell’area commerciale, in un convegno del 1979 affermò che l’amianto blu non era cancerogeno. Ma non era vero e da noi quell’amianto si usava, soprattutto per la lavorazione dei tubi". Poi un giorno l’Inail smise di pagare il premio supplementare per chi lavorava in Eternit, prendendo per buoni i dati dell’azienda secondo cui il pericolo in fabbrica non esisteva più. Una decisione contro cui sindacato e lavoratori si batterono, intraprendendo nel 1981 una vertenza collettiva e portando l’Inail in tribunale, con una causa vinta nell’89.

Le attività del sindacato stavano diventando pericolose per i vertici aziendali, tanto che alle calcagna di Pesce e compagni fu messa addirittura una spia. "Si chiamava Cristina Bruno, una giornalista freelance che aveva scritto articoli sui giornali locali, come Il Piccolo e La Vita Casalese. Veniva ai nostri incontri, era insistente e petulante. Voleva partecipare alle riunioni private e noi non ci preoccupavamo". Solo dopo si scoprì che era pagata da una società di Milano incaricata di informare i vertici Eternit sulle mosse del sindacato. Un interesse costante della multinazionale che però non si traduceva nella volontà di fare qualcosa per rimediare al disastro ambientale sul territorio, come dimostra lo stato di abbandono in cui furono lasciati gli stabilimenti dopo il 1986, anno di chiusura della Eternit in Italia. "La bonifica è stata fatta a partire dal 2000, ma solo con fondi pubblici, senza alcun contributo dell’impresa".

L’azienda, che ancora oggi sostiene di lavorare l’amianto in modo sicuro, ad esempio in Canada, durante gli anni di attività in Italia nemmeno si preoccupava del problema. Lo ha detto anche Ezio Buffa, l’ultimo testimone chiamato ieri a parlare in tribunale. Assunto nel 1954 e pensionato dal 1978, perché malato di asbestosi (oggi al 76%), Buffa ha raccontato la sua realtà, quella dei lavoratori: le macchine che perdevano polveri, i pavimenti puliti a colpi scopa, gli scarti industriali rotti nel piazzale con un caterpillar cingolato e il polverino regalato alle famiglie da usare in casa come isolante o pavimentazione. E poi la conferma: dall’azienda nessuna protezione, nessun avvertimento e nemmeno la possibilità di parlare del problema amianto durante le ore di lavoro.

A margine del processo una notizia di cronaca sportiva. E’ morto Sergio Castelletti, terzino sinistro della Nazionale e della Fiorentina negli anni sessanta. Era nato a Casale il 30 dicembre del 1937, e sul campo dove le buche venivano colmate con il polverino si era allenato fin da ragazzino. Il mesotelioma ha ucciso anche lui.

di Ilaria Leccardi, da Terra Comune del 30 aprile 2010